I due volti dell’Africa emergente

davidI due volti del Continente nero: l’Africa che attira sempre più gli interessi del resto del mondo imprenditoriale, Stati Uniti in prima linea e l’Africa subsahariana che ancora stenta a decollare dove la gente continua a fare i conti con violenze, povertà e corruzione. Due facce della stessa medaglia che vengono analizzate da David Miliband, presidente e amministratore delegato dell’international Rescue Committee e ministro degli Esteri del Regno Unito dal 2007 al 2010.

L’Africa cambia radicalmente, e cambiano anche gli atteggiamenti del resto del mondo nei suoi confronti, con gli Stati Uniti che sembrano decisi a colmare il ritardo di interesse verso il continente accumulato rispetto a Cina, Europa e India. Il vertice del Presidente Obama con 40 capi di Stato africani e oltre 200 esponenti del mondo imprenditoriale di Usa e Africa indica la presenza di un clima nuovo. E’ uno sviluppo incoraggiante, ma finché delle parti dell’Africa subsahariana continueranno a dover fare i conti con violenze, povertà e corruzione, le potenzialità economiche del continente rimarranno irrealizzate.

La crescita economica e le opportunità commerciali dell’Africa sono allettanti: la classe media del continente, già forte di 300 milioni di individui, si espande di oltre il 5% ogni anno; l’Africa è all’avanguardia nel mobile banking; la spesa pro capite per consumi è vicina ai livelli indiani e cinesi; se gli investimenti esteri, in collaborazione con il dinamico settore privato del continente, riusciranno a portare benefici a comparti chiave (istruzione, sanità e infrastrutture), l’Africa potrà avere quella spinta per lo sviluppo di cui le sue popolazioni hanno bisogno.

Ma investimenti e crescita – l’Africa emergente” – sono solo una parte della storia. C’è anche l’Africa che patisce, con crisi e conflitti che interessano gran parte del continente, in particolare le decine di milioni di persone che vivono nella fascia di Paesi che va dal Mali alla Somalia. Anche prima dell’epidemia di Ebola in Liberia e Sierra Leone, il Sudan del Sud, la Repubblica Centrafricana e il Mali rischiavano di aggiungersi alla lunga lista di Stati fragili o fallimentari, che già include Somalia e Repubblica Democratica del Congo. Conflitti etnici, religiosi, economici e di altro genere spesso mettono in secondo piano l’obiettivo di garantire governance efficiente e servizi fondamentali.

Questi Paesi finiscono sotto i riflettori mondiali – e per breve tempo solo quando ci sono stragi su larga scala o crisi di profughi. Poi l’attenzione dell’opinione pubblica si sposta su altre questioni, e i problemi crescono e le condizioni di vita peggiorano. Nel Sudan del Sud, il Paese più giovane del mondo, l’unità politica su basi etniche si era mantenuta durante la lotta per l’indipendenza, ma quest’anno l’equilibrio è saltato e si è scatenato un conflitto violento. Circa 1,5 milioni di persone ha perso casa, e 40omila profughi sono fuggiti negli Stati confinanti. Il terrore è generalizzato, nessuno si sente al sicuro. In aprile, la mia organizzazione ha perso due membri dello staff che lavoravano con i rifugiati dentro un campo delle Nazioni Unite. E ai primi di agosto sette operatori umanitari assunti in loco sono stati presi di mira e giustiziati.

Nella Repubblica Centrafricana, gli attacchi contro i cristiani da parte degli ex guerriglieri Séléka (musulmani) sono stati rimpiazzati dalle violenze delle milizie anti-balaka (composte da cristiani e animisti) contro i musulmani, costringendoli alla fuga. La popolazione musulmana della Repubblica Centrafricana è precipitata, secondo le stime, dal 15% a meno del 5%. Donne e bambini sono quelli che hanno sofferto maggiormente. Solo negli ultimi tre mesi, i centri dell’International Rescue Committee nella capitale, Bangui, hanno registrato un forte aumento di donne in fuga da violenze e abusi.

C’è urgente bisogno di aiuti, ma tardano ad arrivare. L’appello delle Nazioni Unite per raccogliere 565 milioni di dollari per la Repubblica Centrafricana per il momento è stato coperto solo al 39%. L’appello per il Sudan del Sud, che rischia la carestia perché i combattimenti hanno impedito ai contadini di seminare, ha raggiunto solo metà dell’obiettivo. Lo sfinimento dei donatori, e la moltitudine di crisi globali con cui devono fare i conti le autorità, si fa sentire.

L’azione umanitaria è essenziale per affrontare le crisi immediate. Ma è importante riconoscere, così come le crisi politiche spesso conducono a crisi umanitarie, che le necessità umanitarie possono provocare instabilità politica, con esodi di massa dai Paesi lacerati dalle crisi che portano alla destabilizzazione di intere regioni. È raro che una guerra civile rimanga confinata al Paese in cui è cominciata.

I problemi dei rifugiati hanno radici profonde. Metà dei poveri del pianeta, per esempio, vive in Stati fragili e lacerati da conflitti – il 20% in più rispetto a dieci anni fa – e i tre quarti dei rifugiati vivono tra la popolazione autoctona nelle aree urbane. Le crisi e il sottosviluppo sono intrecciati fra loro.

Sappiamo quale tipo di azione umanitaria funziona: le iniziative incentrate sulla comunità, che costruiscono fiducia, funzionano meglio di progetti amministrati centralmente o dall’esterno. Dare più potere alle donne per proteggersi dalle violenze, o insegnare ai bambini sfollati come gestire il loro trauma, sono fra le strade più efficaci per il recupero. Sappiamo anche che senza sicurezza non può esserci sviluppo: oggi più di 1oo mila soldati delle forze di pace dell’Onu e dell’Unione africana sono schierati in diversi Stati africani lacerati dai conflitti; ne servono altri, specialmente nella Repubblica Centrafricana e nel Sudan del Sud.

Gli investimenti in Africa sono importanti e c’è bisogno di valutazioni e pianificazione nel lungo periodo. L’amministrazione Obama fa bene a promuovere opportunità commerciali nel continente. Ma questo da solo non basterà ad affrontare alla radice i conflitti violenti che ancora affliggono la vita di milioni di esseri umani. Il soccorso umanitario dev’essere, insieme allo sviluppo economico e al buongoverno, uno dei pilastri della spinta dell’Africa per realizzare il suo potenziale.