Negli occhi di quei bambini sporchi di fango, il dramma dei profughi siriani

bambini profughi sirianiIeri, uscendo dalla stazione dei bus di Gaziantep, mi sono imbattuto in una famiglia di profughi siriani. Erano sporchi e spossati per quello che doveva essere stato un lungo e difficile viaggio. Mi hanno colpito in particolar modo i bambini: se ne stavano seduti sul marciapiede, scalzi, i vestiti infangati. Avevano il volto spento, parevano svuotati di ogni energia e voglia di vivere.

Durante il tragitto in pullman mi sono domandato a lungo come deve essere la vita di uno sfollato. Ho provato a immaginare quali difficoltà devono affrontare le famiglie che, per sopravvivere, si trovano costrette ad abbandonare le proprie case e a intraprendere delle vere e proprie odissee, spesso senza una meta ben precisa. Perché il più delle volte, quando la guerra incombe, c’è a malapena il tempo per raccogliere i propri averi e ciò che si ha di più caro, caricarsi i sacchi in spalla e partire.

Poi si cammina, magari per ore, magari per giorni. Appesantiti non solo dal carico di bagagli, ma dalla responsabilità dei propri cari: le madri che consolano e incoraggiano i propri bambini, gli uomini che sostengono gli anziani genitori. Di tanto in tanto, una sosta in qualche campo improvvisato all’aperto o – se si è fortunati – in una fattoria, un edificio abbandonato, presso una famiglia ospitante. Magari per un solo giorno, magari per un mese o anche più.

E lì comincia la quotidiana sfida per la sopravvivenza. Se non ci sono le risorse necessarie, si è costretti a ricorrere a espedienti o a fare affidamento alla generosità altrui, per potersi accaparrare un po’ di cibo. Ci si sente disorientati, inadeguati, senza più dignità. Se la disperazione è tanta, i genitori abdicano persino al proprio ruolo educativo e di sostegno ai figli, mandandoli a lavorare o a fare accattonaggio. E avanti così, giorno dopo giorno, finché non è tempo di ripartire: verso l’ignoto, inseguendo la speranza di una vita migliore o – più semplicemente – di poter fare ritorno al proprio paese, alla propria casa, al proprio mondo.

«Vivere da ‪profughi è come essere bloccati nelle sabbie mobili: più ti muovi, più affondi» ha detto di recente un padre siriano di quattro figli a un funzionario delle Nazioni Unite, durante una visita a un campo profughi.

Ebbene, dall’inizio del conflitto quasi metà della popolazione siriana è stata costretta ad abbandonare la propria casa e si trova oggi sfollata all’interno dei confini nazionali o rifugiata nei paesi confinanti. Si tratta di un dramma di proporzioni colossali, causato non solo dalle violenze legate alla guerra, ma dall’impossibilità, per molte famiglie, di accedere ai mezzi di sussistenza primari. Sostenere le comunità locali garantendo loro l’accesso a beni e servizi essenziali è l’unico modo per arginare lo spopolamento e contenere questa crisi senza precedenti.

 

Luigi Mariani
Country coordinator di Ai.Bi. in Siria

 

Ai.Bi. ha lanciato la prima campagna di Sostegno a Distanza per aiutare le famiglie siriane a restare nel proprio paese e continuare a crescere i propri figli in condizioni dignitose, nonostante la grave crisi. Cibo, salute, scuola, casa, gioco: queste le cinque aree d’intervento. Per avere maggiori informazioni sull’iniziativa e per dare il tuo contributo, visita il sito dedicato.