Sarà legge il diritto alle origini

ricerca-originiDue  diritti non sempre facilmente conciliabili tra loro sono al centro delle attenzioni della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati: quello della madre che non intende riconoscere il proprio figlio a restare anonima e quello del figlio non riconosciuto di sapere quali siano le sue origini. Quest’ultimo presto diventerà un diritto anche per la legge. Ne parla questo articolo, che riportiamo integralmente, pubblicato sul sito internet del quotidiano “Avvenire” martedì 21 aprile, a firma del giornalista Angelo Picariello.

 

La possibilità del minore adottato di venire a conoscenza delle sue origini, ossia dell’identità dei suoi genitori biologici, presto diventerà diritto, per legge. L’esigenza di portarne a conoscenza un bambino, per gradi, nell’ambito di un preciso percorso educativo – curando la ferita che si porta dentro, a livello inconscio – è da almeno un ventennio componente essenziale del percorso formativo che ogni coppia adottiva affronta con Servizi sociali, enti adottivi accreditati e, infine, Tribunale dei minori che sancisce l’idoneità della coppia. Sono archiviati quindi antichi tabù, in grado di generare traumi, soprattutto in età adolescenziale, nel momento in cui ci si trova a fare i conti, magari improvvisamente, con la propria identità biologica. Sulla scorta della Convenzione dei diritti del fanciullo del 1989, e della Convenzione dell’Aja sulle adozioni internazionali del 1993 è già garantito al figlio adottato il diritto a conoscere le proprie origini al compimento dei 25 anni di età, fermo restando il diritto all’anonimato, se esercitato, della madre biologica. Sin dai 18 anni tale diritto può però essere accordato facendo istanza al Tribunale dei minori.

Ma ora questa possibilità andrà sancita per legge. Con la sentenza 278 del 2013 la Corte Costituzionale ha dichiarato infatti illegittima la legge 184 sul diritto del minore ad avere una famiglia, nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di interpellare, su istanza del figlio, la madre che abbia richiesto l’anonimato al momento del parto. La madre andrebbe invece contattata per verificare se nel tempo – di fronte alla richiesta del figlio biologico – tale richiesta possa essere modificata anche quando, in base alla legge sull’ordinamento dello Stato civile (il dpr 396 del 2000) abbia chiesto di non essere nominata. Questo sulla scorta di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del settembre 2012 che stigmatizzava il mancato riconoscimento del diritto al figlio adottato a venire a conoscenza delle sue origini.

Il tema è delicato, e lo diventa ancor più oggi nell’era di Internet e dei social network, che vede messe in rete tutte le informazioni relativizzando il concetto di segretezza, come approfondito nei giorni scorsi da un interessante convegno organizzato a Torino dall’Azienda regionale per le adozioni internazionali del Piemonte (unico ente di diritto pubblico del settore) sul tema del diritto alle origini e social media.

Intanto, lontano dai riflettori, prosegue da mesi in Commissione Giustizia alla Camera, la discussione sulla legge che l’Italia dovrà darsi per assicurare tale diritto. La sentenza della Consulta spiega bene gli interessi costituzionali in gioco. Il diritto del figlio adottivo a conoscere le proprie origini, ma anche quello della madre biologica all’anonimato «che riposa sull’esigenza di salvaguardare madre e neonato da qualsiasi turbamento», riconosce la Corte, e crea le «premesse perché la nascita possa avvenire nelle condizioni migliori possibili».

Spesso questa segretezza è pre-condizione perché la madre decida di portare a termine la gravidanza, rinunciando alla sua interruzione. Sono circa 300 i casi del genere all’anno, grosso modo un bambino al giorno che nasce in virtù del “diritto all’oblio” garantito alla madre. Ma non c’è solo questo. Come la discussione in commissione ha evidenziato – attraverso le audizioni di associazioni e giudici minorili – c’è anche il delicato tema del trauma che si rischia di arrecare alla famiglia della madre biologica, che potendo contare sul segreto garantito dallo Stato di una precedente gravidanza non aveva informato i suoi congiunti, e non saprebbe come spiegare un improvviso arrivo a casa di magistrati, o anche solo di operatori dei servizi sociali, o ufficiali giudiziari.

Cuore del problema è soprattutto una previsione inserita nel testo unico in discussione in Commissione, elaborato sulla scorta delle ben 8 proposte presentate, che stabilisce come «su istanza del figlio non riconosciuto alla nascita in mancanza di revoca della dichiarazione della madre di non volere essere nominata» il Tribunale per i minorenni possa «con modalità che assicurino la massima riservatezza, anche avvalendosi del personale dei servizi sociali, contattare la madre senza formalità per verificare se intenda mantenere l’anonimato». Il nodo è proprio questo: c’è un modo, in concreto, per garantire la «massima riservatezza»? Per evitare di creare un forte disincentivo all’opzione offerta alla madre di rinunciare all’aborto in cambio della promessa dello Stato di mantenere il suo anonimato.

Altro tema è il diritto per il figlio, assoluto e fuori discussione, di venire in possesso della sua cartella clinica e delle sue coordinate cromosomiche. Ma sono gli stessi diritti che si intende negare, oggi, a figli nati da fecondazione eterologa. A dimostrazione di come in Italia l’approccio ideologico alle problematiche rischi, spesso, di ingenerare schizofrenie giuridiche. E di come la centralità dei diritti del bambino rischi di restare solo un enunciato generico, da tutelare solo quando piace o conviene agli adulti.