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La grazia di Dio attende la nostra libera risposta

La riflessione di don Maurizio Chiodi prende spunto dalle letture proposte dalla liturgia per la III domenica di Quaresima (24/3/19): dal Vangelo secondo Luca (Lc 13,1-9), dai brani tratti dal libro libro dell’Èsodo (Es 3,1-8a.13-15) e dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 10,1-6.10-12).

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La voce e la Parola del Signore ci chiama alla conversione a Lui, specialmente in questo tempo di Quaresima, tempo di grazia e tempo di libertà!

È un tempo nel quale, come dice Paolo nella seconda lettura, siamo invitati a bere dalla «roccia spirituale» che, nella nostra vita e per tutti gli uomini, è Cristo stesso! Siamo dunque invitati a nutrirci della ricchezza sovrabbondante di questa Parola di Dio, perché ci illumini e diriga i nostri passi verso di Lui!

La prima lettura, dal libro dell’Esodo, è uno dei vertici della Sacra Scrittura: è un passo che ci dovrebbe essere molto caro.

Mosè, dopo essere fuggito dall’Egitto, era riparato nel territorio di Madian e lì si era sposato. La sua vita in Egitto sembrava tanto lontana!

Ma è proprio in quell’esilio che il Signore lo raggiunge e lo chiama. Era diventato pastore e, avendo condotto il bestiame del suocero, «oltre il deserto», era giunto nel suo peregrinare fino «al monte di Dio, l’Oreb»! Questa montagna è il Sinai, che appunto si chiama anche Oreb.

Lì, mentre sta pascolando il bestiame accade qualcosa di assolutamente imprevedibile: «una fiamma di fuoco» che sta nel «mezzo di un roveto», un fuoco scoppiettante, luminoso, che si accende all’improvviso.

Attratto da quell’insolito spettacolo, Mosè guarda con attenzione e si accorge di una cosa ancor più meravigliosa: «il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava».

C’è qualcosa di impossibile, qui. Un roveto non può ardere senza consumarsi! Mosè è attratto e incuriosito da «questo grande spettacolo», come dice lui stesso tra sé e sé: «perché il roveto non brucia?». Per lui questo ‘spettacolo’ meraviglioso diventa un segno, qualcosa che lo tocca profondamente e suscita in lui, appunto, meraviglia, soprattutto la grande domanda: «perché?».

Non capita così molte volte anche a noi che, talvolta, davanti a qualche evento particolare, o nella natura o nella storia, ci domandiamo: “perché?”. Tutte le grandi scoperte dell’umanità sono nate dalla curiosità di qualcuno che, davanti a qualcosa, si è chiesto: “perché?”.

È la nostra capacità di indagare, di risalire a ciò che sta ‘dietro’ o ‘dentro’ quel che accade, per comprenderne il senso, il significato per noi.

In fondo, tutto nella vita ci sollecita a questa grande domanda: “perché?”. “Perché sboccia un fiore? Perché ogni mattina sorge il sole? Perché nevica o perché piove? Perché la immensa profondità del cielo e la bellezza a tratti spaventosa del mare?” E così via …

Mentre Mosè vuole avvicinarsi per afferrare, per comprendere quel che accade, ecco che una «voce gridò a lui dal roveto».

Qui andiamo di meraviglia in meraviglia: quel roveto, addirittura, parla! Come è possibile? Ma è ancora più straordinario quel che grida quella voce, il suo nome, ripetendolo per due volte: «Mosè, Mosè!». 

Possiamo immaginare lo stupore e la meraviglia di Mosè che, però, prontamente e apparentemente senza batter ciglio, risponde: «Eccomi!». Avrebbe potuto scappare, stropicciarsi gli occhi, stapparsi le orecchie, guardare lontano. Da che mondo è mondo, non si è mai visto un roveto che brucia e non si consuma né tantomeno un fuoco che parla!

Eppure, qui, Mosè sta già comprendendo che gli accadendo qualcosa di meraviglioso. Risponde: «Eccomi!», come si può rispondere solo ad un altro che chiama. «Eccomi!» è la sua risposta alla «voce».

Questa voce continua, rivelandosi. Prima, però, e anzitutto, gli intima di non avvicinarsi di più: «Non avvicinarti oltre»!

Gli chiede di fermarsi, quella voce. Gli chiede di abbassare le mani, di mettersi in posizione di ascolto, di accoglienza.

Addirittura, continua quella voce: «togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!».  

Quella voce lo ammonisce che quel suolo è santo, è riservato a Dio e quindi lui non lo può ‘sporcare’, non può camminarci sopra, non vi può mettere sopra i suoi piedi, come a esserne padrone. Quella terra non è sua, addirittura, non è umana e lui non può calpestarla.

Alla fine quella voce si fa riconoscere come «il Dio di tuo padre», di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. È il Dio di Israele. È il Dio della promessa. È il Dio dell’alleanza.

È bellissima la prima reazione di Mosè: «allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio».

Non è per paura, non è per vigliaccheria. Mosè si copre il volto, come noi ci copriamo gli occhi davanti a una luce accecante. Non possiamo guardarla, fissarla, se non perdendo la vista. Mosè non può guardare, non può indagare, non può pretendere di ‘possedere’ questo Altro che gli si rivela, se non nella misura in cui Lui stesso si rivela e lo chiama.

Continua, il Dio della promessa, dicendo di aver «osservato la miseria del [suo] popolo [schiavo] in Egitto». Gli dice, questa voce, di aver «udito» il «grido» di dolore di Israele.

Non è un Dio indifferente né, tantomeno, un Dio che castiga.

Così decide di «liberarlo», il suo popolo, e di condurlo «verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele».

È una promessa meravigliosa, che compie la promessa fatta ad Abramo.

Prendendo fiducia e accettando il dialogo, Mosè accetta di andare dai suoi, ma ‘osa’ chiedere a quella voce, rimandando la domanda agli Israeliti: «Mi diranno: “Qual è il suo nome”?».

È una domanda immensamente coraggiosa.

Qual è il nome di Dio? Questo significa: “Chi sei tu, o Dio?”.

È una domanda che provoca ‘vertigine’, una domanda nella quale ci sembra di affondare come nel mare profondo, come nell’abisso del cielo, oscuro e luminoso.

È una domanda che, da sempre, affascina l’umanità, compresi coloro che, con sorriso ironico e beffardo, dicono: Dio non c’è!

Dio risponde a Mosè con un nome enigmatico e ancor più affascinante, con un gioco di parole impossibile da tradurre, perché nessuna parola lo può dire in modo pieno, il «nome» di Dio: «Io sono colui che sono!». “Sono Colui che si rivelerà attraverso le opere nelle quali mi renderò presente in mezzo a voi”: potremmo tentare di tradurre così questo «nome» del Dio di Mosè e dei padri.

È questo Dio che manda Mosè, perché è un Dio che agisce nella storia attraverso gli uomini che si fidano di Lui, che si fanno testimoni della sua presenza, della sua alleanza, della sua presenza, della sua grazia.

Così possiamo comprendere il Vangelo, provocatorio. A chi gli racconta quel fatto di sangue, in cui Pilato ha fatto uccidere dei Galilei che stavano sacrificando al loro Dio, Gesù risponde, in modo enigmatico: “quei Galilei non sono più peccatori di voi! Dio non li ha affatto puniti. E nemmeno quelle «diciotto persone» che sono perite sotto il crollo della torre di Siloe, nemmeno loro sono più o meno colpevoli di voi!”.

Così, con un tratto di penna, Gesù cancella per sempre un’idea che, invece, spesso, noi attribuiamo a Dio: l’idea che Dio ci castiga – o ci premia – quando ci accade qualcosa di brutto, di male, o, rispettivamente, di bene. Quante volte, anche noi cristiani, diciamo questa bestemmia: “il Signore mi ha castigato!”. O: “il Signore lo ha castigato!”.

A tutti, piuttosto, Gesù chiede di convertirsi, altrimenti moriremo. È una morte più radicale, questa, è la morte di chi perde se stesso, per sempre.

Così, subito dopo, Gesù racconta una parabola, nella quale ci è rivelata l’immensa pazienza di quel vignaiolo. Dopo tanti anni che quella vite non produce frutti, decide di prendersene ancora più cura, perché possa portare «frutti per l’avvenire».

È la pazienza di Dio che non si stanca per la nostra sterilità e per le nostre opere cattive, ma – questo è Gesù! – si prende cura di noi, ci circonda di amore e di attenzione, si fa vicino a noi, perché noi ci lasciamo ‘convertire’ da questo amore gratuito, luminoso come la fiamma del fuoco del roveto ardente.

Eppure, nella parabola questa ‘attesa’ di Dio ha un termine: sì, perché è rivolta alla nostra libertà, alla nostra risposta, alla nostra decisione.

La voce, la presenza, l’alleanza, la promessa di Dio, la sua grazia attende la nostra libertà, la nostra risposta. Dio ci attende e ci sollecita a lasciarci convertire a Lui, lasciando operare la sua grazia!

don Maurizio



L’Associazione LA PIETRA SCARTATA da anni accompagna e supporta le famiglie nella vocazione a prendersi cura dei bambini abbandonati o temporaneamente allontanati dalla propria famiglia, conservando o restituendo loro la dignità di figli, mentre si rende testimonianza dell’Amore di Dio nell’accoglienza familiare affidataria o adottiva, secondo il carisma proprio del sacramento matrimoniale, vissuto nell’ambito fecondo delle relazioni coniugali.


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