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Entrare nella festa del perdono di Dio

La riflessione di don Maurizio Chiodi prende spunto dalle letture proposte dalla liturgia per la IV domenica di Quaresima (31/3/19): dal Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-3.11-32), dai brani tratti dal libro di Giosuè (Gs 5,9a.10-12) e dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (2Cor 5,17-21).


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L’apostolo Paolo, nella seconda lettura, dice che l’essere «una nuova creatura» non può che venire «da Dio», non dai nostri sforzi e dalla nostra buona volontà. È un dono di Dio, «che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo», essere nuovi.

Tutti noi, o quasi tutti, desideriamo diventare ‘migliori’, ci impegniamo per toglierci certi difetti più fastidiosi, o per lo meno cerchiamo di smussarli, per evitare gli spigoli che feriscono. Eppure sappiamo bene come questo ‘lavoro’ sia difficile. Spesso abbiamo l’impressione di non riuscire a fare dei passi evidenti. Ci sembra di essere sempre gli stessi o addirittura di peggiorare.

‘Limare’ si può, cambiare totalmente è impossibile!

Eppure san Paolo ci ricorda una verità profonda: è solo per dono di qualcun altro, radicalmente per dono di Dio, che noi possiamo ‘iniziare’ di nuovo, ricominciare con maggiore speranza.

E, aggiunge, Dio «ha affidato a noi il ministero della riconciliazione».

Non è un mistero che questo ‘ministero’, nella Chiesa affidato ai preti, sia in crisi. Il sacramento della riconciliazione sta attraversando una fase di enorme trasformazione: c’è, tra i cristiani, chi si confessa (ancora) con una certa frequenza, e a volte (troppo) per abitudine; c’è chi non si confessa più, per superficialità o perché gli sembra del tutto inutile o perché gli sembra un peso, che si aggiunge ai molti della vita, oppure perché non si fida (più) dei preti, o perché non capisce perché deve raccontare le sue cose ad un altro che è peccatore come lui/lei o anche peggio; c’è chi si confessa poco, per queste stesse difficoltà o per altre ancora.

Quello che oggi siamo chiamati a riconoscere è che, in questo tempo di crisi, di trasformazione e di veloci cambiamenti, niente va più ‘da sé’. A noi è chiesto di deciderci, in prima persona.

Che cosa c’è in gioco, nel ‘ministero’ della riconciliazione, che è stato affidato alla Chiesa, nel nome di Gesù, e per volontà di Gesù da Lui stesso, se non la nostra riconciliazione con Dio?

Questa riconciliazione, però, non è tanto (o solo) un atto mio, ma è una grazia sua, che ‘passa’ a noi nella Chiesa. E questa ‘grazia’ non si realizza senza che io lo voglia. È possibile un nuovo inizio, ma, questo, alla radice, è dono di Dio, offerto alla mia libertà.

Questo è raccontato da Gesù, in modo meraviglioso, nella famosa parabola del Padre misericordioso.

Spesso, nel passato, la chiamavano la parabola del figliol prodigo e non a caso, perché abbiamo rischiato di insistere su questo figlio, il più giovane, ‘scapestrato’, ribelle, insofferente, affascinato e, addirittura, intrappolato dalla voglia di libertà che, alla fine, si rivela essere per lui un terribile tranello.

Che strano, in questa splendida parabola, abbiamo spesso dimenticato la figura del secondo figlio, all’apparenza ‘un bravissimo ragazzo’, ma in realtà nient’affatto ‘migliore’ del primo!

Però, vedete, il centro, o il culmine di questa parabola, non sono i due figli, o l’uno o l’altro, a seconda dei nostri gusti, ma la figura straordinaria e quasi incredibile, ma meravigliosa, di questo Padre. Per ciò, questa è la parabola del Padre misericordioso, che è immagine di Dio.

Non è un caso che Gesù racconti questa parabola, per ‘aiutare’ – o educare – «i farisei e gli scribi»a superare le accuse nei suoi confronti:«mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”». Questa gente, proprio come il secondo figlio, non riesce a comprendere il modo di agire di Gesù. È scandalizzata di come egli accoglie i «peccatori», che sono ben rappresentati dal primo figlio. Nel modo di agire di Gesù è in gioco una certa immagine di Dio. Questi farisei e scribi non accettano un Dio così, un Dio che accoglie e mangia con i pubblicani e i peccatori.

La parabola, quindi, mentre ci racconta di Dio, ci parla anche del nostro modo di entrare in relazione con Lui. Il quadro che Gesù dipinge dei due figli rappresenta in modo chiaro e luminoso due stili di vita, due tipi di essere uomini e donne, opposto l’uno all’altro.

In quale dei due ciascuno di noi si identifica? A quale di questi due figli io mi sento più vicino – questa è la domanda che ci viene più spontanea, leggendo questa parabola – : al primo o al secondo? Certo, può darsi che qualche volta nella vita ci siamo sentiti più vicini al primo e qualche altra volta al secondo e che, quindi, facciamo fatica a scegliere. Ma non possiamo sottrarci a questa domanda: a quale dei due, adesso, oggi, mi sento più vicino e simile? Quale dei due modi di relazione con Dio, dell’uno o dell’altro, è più mio?

Il primo figlio, «più giovane», a un certo punto della sua vita, decide di fare ‘un taglio’ netto. Il suo è un piano preciso. Comincia con il chiedere al padre «la parte di patrimonio che [gli] spetta». Gliela chiede in anticipo.

La sua è una pretesa strana, un po’ arrogante. Non decide semplicemente di fare la sua vita, come ogni figlio. Chiede l’eredità e l’ottiene.

Poi, dopo quel giorno, si rivelano i suoi intenti profondi: «partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto». Questo figlio rimane ‘affascinato’ dai piaceri della vita. Sprofonda in un giro pericoloso, in un circolo vizioso. Soldi, ‘amici’, donne a volontà, divertimento.

Ad un certo punto, come è logico, i soldi finiscono. In più, «in quel paese» arriva «una grande carestia», o una crisi economica. Lui, all’improvviso, comincia «a trovarsi nel bisogno». È costretto a fare i conti con la realtà.

Cerca un lavoro, per sopravvivere ma è un pessimo lavoro: il guardiano dei porci. È un lavoro sottopagato. Lo sfruttano. Ha talmente fame che vorrebbe mangiare le cose che mangiano i maiali. Ma non può.

In questa solitudine estrema, a un certo punto, comincia a risvegliarsi, ad aprire di nuovo gli occhi: «ritornò in sé».

In effetti, oggi, la sua vita è peggiore di quella dei dipendenti di suo padre. Così egli comincia a pensare di tornare dal padre. Capisce, pian piano, che non può pretendere di essere trattato come un figlio. Chiederà soltanto di essere trattato «come» uno dei salariati del padre.

Così «si alzò e tornò da suo padre».

 Al centro, o al culmine della parabola, c’è l’incontro, commovente, con il padre. Questo padre lo aspettava, non aveva mai smesso di aspettare il ritorno del figlio. Così, quando lo vede, da lontano, è preso da «compassione».

Ecco, vedete, questo è Dio–con-noi: con-passione. Dio sente con noi, mettendosi al nostro posto. Questo è Gesù!

E poi seguono una serie di gesti travolgenti, uno dietro l’altro: «gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Non lo lascia quasi nemmeno parlare e ordina di fare una festa ‘eccezionale’, meravigliosa. «Vestito, …, anello …, sandali…, vitello grasso…». È un’esplosione di gioia, travolgente. Quel figlio non ha fatto in tempo a confessare la sua colpa, che il padre lo circonda di feste!

È qui che arriva l’altro figlio. Forse, spontaneamente, qualcuno di noi è portato a dire che questo figlio ha ragione, perché questo padre è incomprensibile. Cominciano a far festa senza di lui.

Così, mentre torna dal lavoro nei campi, sente i rumori della festa, «la musica e le danze». Chiama un servo, insospettito, e si fa spiegare.

Qui si scatena la sua reazione, che rivela bene che cosa si nascondeva dietro la sua apparente ‘perfezione’. «Egli si indignò, e non voleva entrare». Questo figlio è indignato, anzitutto, con il padre. Così, quando questi esce per «supplicarlo» perché entri alla festa, gli presenta il conto, né più né meno dell’altro figlio.

«Io …, e tu…» gli dice! … “Io sono stato da tanti anni» al tuo servizio «non ho mai disobbedito a un tuo comando». Ti ho obbedito in tutto. E «tu non mi hai mai dato [nemmeno] un capretto per far festa con i miei amici»”.

Le parole del padre sono una risposta meravigliosa: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo».

Con le sue parole questo figlio rivela tutta la sua ingratitudine, la sua presunzione, la sua arroganza. In fondo, è suo padre che deve dirgli grazie. Lui non vede che ogni sua cosa è un ‘dono’ del padre. È pieno di beni, ma non vede che sono dei doni. Così si vanta davanti a suo padre.

Non può nemmeno accettare il suo fratello. Forse, sotto sotto, lo invidia, segretamente … Ha avuto il coraggio, suo fratello, di fare quello che lui avrebbe voluto.

La parabola si conclude come con una sospensione: “entrerà questo figlio alla festa? Comincerà, anche lui, una nuova vita?”.

La risposta è affidata a ciascuno di noi. Vogliamo entrare nella festa del perdono di Dio, questo padre meraviglioso, che è ricco di grazia?

Se entreremo nella festa, ne gusteremo tutta la gioia!

don Maurizio



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