Salta al contenuto Skip to sidebar Skip to footer

Testimoniare a tutti la bellezza del dono ricevuto

La riflessione di don Maurizio Chiodi prende spunto dalle letture proposte dalla liturgia per la V domenica di Pasqua, dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 13,31-33a.34-35), dai brani tratti dagli Atti degli Apostoli (At 14,21b-27) e dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (Ap 21,1-5a).


*****************

Prosegue il nostro cammino liturgico nel tempo pasquale, nella memoria viva del Signore crocefisso e risorto.

Le parole del Vangelo di Giovanni, oggi, si riferiscono proprio ad un momento cruciale della Passione, l’inizio di un lunghissimo discorso che Giovanni mette ‘in bocca’ a Gesù appena uscito «dal cenacolo»: il luogo dove Giovanni racconta della lavanda dei piedi di Gesù ai suoi discepoli e dove – come raccontano i sinottici e non Giovanni! – egli ha spezzato il pane per loro, dicendo: “«questo è il mio corpo» dato per voi”.

Ora, le parole che Gesù pronuncia uscendo dal Cenacolo sono una sintesi mirabile proprio della Pasqua: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui». Secondo Giovanni la croce è la ‘gloria’ di Gesù, perché nella croce risplende, in tutta la sua bellezza, in tutta la sua evidenza, in tutto il suo splendore, in tutta la sua luce chi è Gesù: appare, nella croce, l’identità di Gesù.

Questo è vero per tutti gli uomini. Da come uno muore, di solito, si capisce chi è e come è vissuto. Ecco, in particolare, nella morte di Gesù appare la sovrabbondanza del dono, che è la caratteristica e il sigillo della sua vita.

In questo ‘dono’ del Figlio, dice Giovanni, «Dio è stato glorificato in lui». Perché nel dono del Figlio si rivela la gloria, la bellezza, la luce, lo splendore di Dio, si rivela la sua identità. In quella morte è in gioco Dio.

Forse noi siamo troppo abituati all’idea che il Dio di Gesù sia questo. Siamo troppo assuefatti a questo modo di pensare Dio e non ne comprendiamo più la stravolgente novità e bellezza. Così, ne perdiamo la sorpresa.

Non è un Dio che abita i cieli e, da lassù, guarda distratto alle nostre vicende della vita. Non è un Dio che si adira con questo nostro mondo e con tutto il male che lo devasta.

È un Dio che si fa carne, e che, entrato nella storia, si lascia crocifiggere, uccidere, per salvare noi che ci vorremmo sbarazzare e liberare di Lui. È un Dio che si fa grazia!

Subito dopo, Gesù, nel suo inizio di discorso, dice (di sé) che: «anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito». Qui c’è un chiaro riferimento alla Resurrezione.

Nella rinascita a vita nuova è il Padre che dà gloria al Figlio. Nella Resurrezione si rivela l’amore del Padre per questo Figlio, l’Unigenito, che nella morte di croce ha obbedito al Padre e al suo meraviglioso amore per la nostra umanità.

La seconda lettura, dall’Apocalisse, rivela con parole straordinarie come la Resurrezione di Gesù sia l’anticipo, reale, di una radicale trasformazione dell’umanità, della storia, e addirittura dell’intero universo.

«Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più».

Nella Pasqua finisce un mondo, quello dominato dalla menzogna, dall’odio. Facendosi vittima di questo mondo, Dio lo ha salvato, lo ha liberato, lo ha aperto verso un nuovo destino, che si realizzerà solo alla fine dei tempi e che chiede, per questo, la nostra collaborazione fondamentale.

L’Apocalisse parla di questa «città santa, la Gerusalemme nuova», che scende «dal cielo, da Dio», e che è «pronta come una sposa adorna per il suo sposo».

Questo è il dono e il compito della Chiesa: essere in questo nostro mondo, ancora frantumato, spezzato, diviso, travolto dal male, il segno definitivo del dono di Dio, che è destinato per tutta l’umanità. Così noi cristiani partecipiamo al dramma della storia, ma abbiamo la certezza che questo nostro mondo, tanto bello e tanto brutto, alla fine dei tempi sarà totalmente trasformato: e allora, non ci sarà più lacrima, né «morte, né lutto né lamento né affanno».

Sparirà ogni traccia di dolore, di male, di divisione, di intolleranza, di odio, di fatica: «perché le cose di prima sono passate», dice Giovanni nell’Apocalisse. Questo ci dà di vivere con speranza, pur in mezzo alle fatiche, alle lacrime, al dolore di questa nostra vita!

Questa speranza si fa carne nell’amore. Non è dunque, una speranza fatta (solo) di belle parole, che, però, possono diventare – se sono solo parole – un alibi, una fuga, una rinuncia.

Gesù dice, nel Vangelo di Giovanni, come un testamento – «ancora per poco sono con voi»«vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri». Poi, subito dopo, ci dice che questo «comandamento» non è semplicemente uno sforzo, anzi non è affatto il frutto di uno sforzo nostro: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri».

Queste parole sono da capire bene.

Gesù qui, non si pone anzitutto come ‘modello’, come se ci chiedesse di amarci tra noi ‘come’ Lui ha amato noi. Questo sarebbe, per noi, semplicemente impossibile! No!

Ci chiede di amarci tra noi ‘perché’ Lui ha amato noi. Questo significa quel ‘come’: “se voi scoprirete come io ho amato voi, fino alla morte e alla morte di croce, questo voi testimonierete gli uni gli altri”. Allora l’amore reciproco non è il frutto del nostro impegno, ma è la risposta grata al dono che abbiamo ricevuto.

E se noi non ci amiamo gli uni gli altri, tra di noi discepoli, cristiani, allora noi stessi perdiamo, rifiutiamo l’amore gratuito che Lui ha per noi.

Questa è un’insidia che minaccia anche la Chiesa, noi tutti: che, non amandoci gli uni gli altri, finiamo per rinnegare l’amore, la grazia, il perdono che ci è stato donato.

Gesù stesso dice: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». L’amore diventa il ‘segno’ distintivo fondamentale.

Non c’è altro modo per riconoscere che siamo i discepoli di Gesù, se non che abbiamo «amore gli uni per gli altri», perché Lui ha amato noi.

Certo, qui non possiamo nasconderci che qui dobbiamo camminare in modo nuovo, sempre daccapo.

Noi cristiani, a questo amore non ci siamo mai arrivati. Siamo sempre ‘per via’, in cammino. Non dobbiamo dimenticarlo!

Quante volte, anche nelle nostre comunità, ci sono invidie, gelosie, ingiustizie, incomprensioni, lotte, rivalità …

Qui troviamo particolarmente bello il racconto dagli Atti.

Al capitolo quattordici, nella pagine che abbiamo letto, Luca racconta la parte finale del famoso primo viaggio missionario di Paolo, Barnaba e altri compagni.

Siamo nella regione della Galazia, in Asia Minore. Paolo e gli altri arrivano in una città e annunciano la Parola del Vangelo. Attorno a loro, spontaneamente, si radunano le comunità dei cristiani.

Nel viaggio di ritorno, prima di arrivare in Antiochia di Siria, da dove erano partiti, Paolo e Barnaba dicono: «dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni».

La vita delle comunità non è priva di tribolazioni, cioè di prove, di difficoltà, di ostacoli, di insidie. Non è, quella della Chiesa, una strada spianata, facile e bella. Ma noi attraversiamo questo cammino, spesso molto difficile, con la speranza forte nel dono di Dio.

Ci sono due espressioni molto belle alla fine degli Atti, oggi.

Quando tornano ad Antiochia, si dice che là «erano stati affidati alla grazia di Dio» per le loro opere. Ecco, in mezzo alle tribolazioni e ai travagli, gli apostoli – e tutti noi – sanno che c’è la forza e la potenza della grazia che li sostiene. A questa grazia si affidano loro stessi nella loro opera.

Nel nostro agire è Dio stesso che agisce, è la sua grazia che è all’opera.

L’altra espressione è che, mentre Paolo e Barnaba raccontano «tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro», dicono che Dio ha «aperto ai pagani la porta della fede».

È un’espressione molto bella: la fede è come una ‘porta’ che ti apre a un meraviglioso nuovo panorama, ricco di speranza. Ti fa entrare in una casa che è la dimora di Dio in mezzo agli uomini.

Questo ‘dono’ non è riservato a pochi eletti. È rivolto a tutti.

Questo non dobbiamo dimenticarlo mai!

Abbiamo, per tutta l’umanità, la responsabilità di testimoniare a tutti la bellezza del dono che abbiamo ricevuto!

don Maurizio



L’Associazione LA PIETRA SCARTATA da anni accompagna e supporta le famiglie nella vocazione a prendersi cura dei bambini abbandonati o temporaneamente allontanati dalla propria famiglia, conservando o restituendo loro la dignità di figli, mentre si rende testimonianza dell’Amore di Dio nell’accoglienza familiare affidataria o adottiva, secondo il carisma proprio del sacramento matrimoniale, vissuto nell’ambito fecondo delle relazioni coniugali.


Sostieni anche tu questa nostra testimonianza e specifica missione, Dona ora
inserendo la causale "sostegno vocazione all’accoglienza familiare"..

Lascia un commento