La riflessione di don Maurizio Chiodi prende spunto dalle letture proposte dalla liturgia per la XV domenica del tempo ordinario, dal Vangelo secondo Luca (Lc 10,25-37), dai brani tratti dal libro del Deuteronòmio (Dt 30, 10-14) e dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési (Col 1,15-20).

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Al centro del Vangelo odierno ‘sta’ una splendida parabola, che è un’autentica perla di saggezza. Solo Gesù poteva immaginare una storia, piccola, così affascinante. Questa parabola, dunque, appartiene a noi cristiani come parte integrante del tesoro della nostra Sacra Scrittura. Eppure questo testo appartiene anche al patrimonio universale dell’umanità intera.

È una Parola molto bella, sorprendente, tipica dell’originalità di Gesù, eppure anche molto vicina a noi.

Questo lo dice la prima lettura, tratta da un discorso di Mosè nel Deuteronomio, a proposito di tutta la Parola, ma questo vale in modo speciale per questa Parola: «questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».

E aggiunge che: «questa Parola, «questo comando …» del Signore «non è troppo alto», per noi che lo ascoltiamo, né è «troppo lontano», come se fosse irraggiungibile, ideale, astratto e distante, e per questo frustrante.

È una Parola vicina, perché ci appartiene profondamente, e in essa riconosciamo una sapienza reale, proprio ‘nostra’, eppure è una parola che ci sorprende, perché non l’abbiamo inventata noi, perché è detta da un Altro, è una Parola che esce dalla bocca di Dio.

Aggiungiamo che questa parabola di Gesù ci tocca particolarmente oggi. Noi viviamo in una società e una cultura che è continuamente tentata dall’individualismo, dalla ricerca esasperante del proprio benessere. Facciamo fatica a uscire dal nostro ‘guscio’ e tendiamo a vedere nell’altro piuttosto un limite, se non una minaccia e un’insidia, che ci porta via qualcosa. E così viviamo nella paura, nella solitudine, nell’isolamento, sempre più vittime delle nostre paure.

Ecco, questa Parola ci raggiunge aprendoci orizzonti nuovi e sorprendenti eppure anche profondamente attesi e consonanti per noi.

È un dottore della Legge che, spinto dal desiderio, non proprio buono, di «mettere alla prova Gesù», si alza e lo interroga. Quest’uomo è un profondo conoscitore delle Scritture, la Torah. Vuole vedere se anche Gesù è proprio così bravo – come lui? – e per questo lo insidia con una domanda che va al centro della fede: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». “Che cosa devo fare, dunque, per ricevere in dono quella pienezza di vita che ha a che fare con Dio?”.

C’è dunque un’ambiguità in quest’uomo: lo spirito con cui fa la sua domanda a Gesù è piuttosto provvocatorio, ma la domanda è bella.

Gesù, da par suo, gli risponde aiutandolo a dare parola lui stesso al desiderio più profondo che abita il lui.

È tipico di Gesù ‘stanare’, in modo costruttivo, il suo intelocutore. Magari questi andava da Lui per avere delle rispostine belle e pronte per l’uso e Lui invece lo costringe a mettersi in gioco, in prima persona.

Gesù chiede a questo grande conoscitore delle Scritture: «che cosa sta scritto nella Legge?».

La risposta di questo «dottore» è molto bella, come Gesù stesso, con spirito di grande libertà, gli riconosce immediatamente: «Hai risposto bene». Questo ‘dottore’ della Legge indica lui stesso a Gesù la sintesi etica e religiosa della Scrittura, citandogli due passi, uno dal Deuteronomio (l’amore totale per il «Signore tuo Dio») e uno dal Levitico (l’amore per il tuo prossimo, amato «come te stesso»).

Gesù con parole semplicissime ed essenziali, dice a quest’uomo: «fa’ questo e vivrai».

Questa parola non è così lontana, impossibile.

Sai già che cosa fare, come agire, se vuoi gustare la pienezza della vita.

Ma quest’uomo non è pago. Rilancia, con una nuova domanda: «E chi è mio prossimo?».

Vedete, già allora i rabbini, e i dottori della Legge, discutevano su chi fosse il (proprio) prossimo. Nessuno diceva: “il prossimo è solo quello che appartiene al mio popolo (!!)”. Tutti riconoscevano che il prossimo è anche il forestiero che vive in mezzo al tuo popolo. Alcuni dicevano che è ‘prossimo’ anche ogni straniero, basta che tu l’incontri!

In quel tempo, come oggi, non c’era accordo tra gli ebrei, tra gli esperti della Legge, su chi fosse il prossimo.

Gesù risponde a questa domanda ribaltandola, uscendo dalle discussioni di scuola e ‘costringendo’ il suo interlocutore a rispondere lui alla sua domanda, assolutamente geniale: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?».

Quel dottore della Legge chiedeva chi era il prossimo. Andava in cerca di una ‘definizione’. Il prossimo era l’oggetto, colui che ti sta di fronte. La domanda era: “Chi devo amare?”. Quell’uomo cercava un limite.

Invece, con la sua risposta, che è una domanda, Gesù chiede a quest’uomo di ‘uscire’ dal ruolo dell’osservatore’ per mettersi in gioco in prima persona.

Il prossimo non è l’altro, ma sei tu!

Chi di questi tre si è fatto prossimo? È una domanda che ribalta totalmente prospettiva.

Se vuoi sapere chi è che devi amare, sei tu che devi cambiare, non l’altro! Se tu ti fai vicino a colui che incontri, allora scoprirai che cosa significa amarlo.

Per questo Gesù racconta una parabola che, invece che dare la definizione di un precetto, racconta una storia, un dramma, un racconto che non ci lascia indifferenti.

Se noi ascoltiamo questa parabola con la prospettiva del dottore della Legge, è evidente che il ‘prossimo’ è colui che è caduto nelle mani dei briganti. Se invece ascoltiamo questa Parola con gli occhi di Gesù, allora il quadro si rovescia: il prossimo non è l’altro, ma è il mio modo di incontrare l’altro.

Il prossimo sono io, non l’altro!

Essere prossimo è farsi prossimo. È un modo d’agire.

La storia che Gesù racconta è drammatica.

Un uomo, sconosciuto, viene assalito dai briganti, lungo una strada pericolosa.

Lo derubano, di tutto, lo picchiano a sangue, lo abbandonano «lasciandolo mezzo morto». Sembra una delle tante cronache che letteralmente ‘infestano’ i nostri giornali, telegiornali, oggi.

Lungo «quella medesima strada» passano tre figure. Le prime due: un sacerdote e un levita, due appartenenti alla classe sacerdotale, più religiosa. Da loro ci si poteva aspettare un altro modo di agire, più attento e premuroso.

Questi due, invece, passano «oltre». Come se non avessero visto nessuno, come se quell’altro non avesse bisogno di niente. Forse avevano fretta. Forse non volevano ‘contaminarsi’ con un morto. Forse avevano qualcosa di importante da fare …

La cosa più sorprendente però arriva dopo. Questi due che passano oltre sono come due ombre che mettono in luce quel terzo, così diverso dal loro modo di agire.

È un Samaritano, vale a dire non solo uno straniero, ma anche uno che gli altri considerano un eretico. Gesù non avrebbe potuto prendere un personaggio più provvocatorio per chi lo ascoltava. Questo straniero, che aveva tradito la fede dei padri, compie una serie di gesti straordinari.

La parabola di Gesù racconta di questo modo di agire facendo susseguire un verbo dietro l’altro. È come se da un gesto, da un’azione, ne sorgesse subito un’altra. È perché vede che ha compassione. È perché ha compassione che si fa vicino. È perché si fa vicino che fascia le ferita, dopo aver versato olio e vino, per evitare infezioni e per dare sollievo. È per questo che lo carica sulla sua cavalcatura, poi lo porta in un albergo, dove si prende «cura di lui».

Ecco, proprio questo è il segreto del farsi prossimo: è la cura, il prendersi cura.

E poi, il giorno dopo, dopo una notte intera, lo affida all’albergatore, che lui paga in anticipo, promettendo di tornare.

La cura dell’altro è la ‘regola d’oro’! Non sono parole. È un modo di agire.

Anche tu: «fa’ questo e vivrai».

don Maurizio