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Chiedere, cercare, bussare, nella certezza che riceveremo, troveremo e ci sarà aperto

La riflessione di don Maurizio Chiodi prende spunto dalle letture proposte dalla liturgia per la XVII domenica del tempo ordinario, dal Vangelo secondo Luca (Lc 11,1-13), dai brani tratti della Gènesi (Gen 18,20-32) e dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési (Col 2,12-14).

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In questa domenica estiva, in mezzo al ‘caldo’ prepotente di questi giorni, in un tempo di vacanza, per molti di noi, e di riposo, la Parola di Dio ci raggiunge con un’istruzione molto bella sulla preghiera.

Subito ci viene la domanda: ma noi preghiamo?

Come preghiamo? Ogni giorno?

Troviamo il tempo per pregare?

Siamo capaci di pregare?

Che cosa facciamo quando preghiamo? Ripetiamo delle formule oppure preghiamo a modo nostro oppure stiamo in silenzio?

Dove preghiamo? In chiesa, quando qualche volta entriamo, passandoci davanti e trovandola aperta? Oppure preferiamo pregare nella nostra casa?

Qualcuno poi preferisce pregare da solo oppure qualcun altro in comunità, con gli altri … ma questo è molto raro. Sono così pochi i cristiani che pregano la ‘liturgia delle ore’!

E, molti cristiani, anche quando partecipano all’Eucarestia, non si rendono ben conto che quello sarebbe il più alto momento della preghiera cristiana.

Insomma, che cos’è la preghiera? Che cosa vuol dire ‘pregare’? E dunque: come si fa a pregare?

Vedete, un cristiano che non si fa, seriamente e profondamente, queste domande è un ‘cristiano anonimo’ e cioè è un cristiano che non sa di esserlo o forse, se vuole esserlo, non è nemmeno un cristiano.

Un cristiano che non prega, si perde, si inaridisce, si svuota della sua fede.

Io non so bene quanto, in genere, preghi un cristiano, oggi. Probabilmente, ciascuno di noi ha i suoi ritmi, i suoi tempi, i suoi modi. Però, forse, troppi cristiani oggi non pregano, perché sono ‘travolti dalle cose da fare’, perché non ne hanno il tempo.

Oppure non pregano perché non sanno come e che cosa fare e perché, magari, quando si mettono lì, per pregare, subito si stancano e si domandano perché.

Ecco, tutti questi pensieri, o pensieri di questo genere, devono aver provato i discepoli di Gesù, quando lo vedevano pregare.

Il Vangelo di Luca dice: «Gesù si trovava in un luogo a pregare».

Questa, per Gesù, era una preghiera solitaria, anche se lui pregava normalmente anche nell’assemblea dei fratelli, come ogni buon ebreo, più volte al giorno, e al sabato nella sinagoga. Ebbene i discepoli di Gesù rimangono colpiti dal suo ‘ritirarsi’ in preghiera.

Questo particolare dice una cosa importante. La preghiera nasce sempre dalla testimonianza di qualcuno che prega. È quando vediamo un altro pregare che, se lo stimiamo, se lo guardiamo bene, magari lì immobile in chiesa, nella solitudine e nel silenzio, è lì che ci nasce il desiderio, se noi non sappiamo pregare, di imparare.

Il desiderio di pregare nasce sempre dall’esperienza di qualcun altro che prega o da una bella esperienza di preghiera fatta con altri.

E, lasciatemelo dire: di questo, oggi, mi pare, manchiamo molto nelle nostre comunità. È così difficile entrare in una chiesa e trovarci qualcuno che prega. Forse, questo capita nei santuari, più facilmente. Ma le nostre chiese, in genere, al di là delle celebrazioni, sono desolatamente vuote. Anche prima e dopo la Messa è così difficile, nelle nostre chiese, trovare il silenzio, la preghiera.

Anche noi preti, raramente, siamo in chiesa per la preghiera. Abbiamo sempre fretta, proprio come chi prete non è: andiamo dalla sacrestia all’altare, dall’altare alla sacrestia e poi via, con fretta … senza fermarci in chiesa per pregare un po’, nel silenzio adorante.

Colpito da Gesù che prega, uno dei discepoli di Gesù, gli chiede: «Signore, insegnaci a pregare». E poi aggiunge, quasi a giustificarsi per la sua domanda: «come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli».

Ma, al di là di questo, già la domanda è fondamentale. È una domanda che esprime un desiderio. E già avere il desiderio di pregare è la porta di accesso alla preghiera.

L’evangelista Luca sintetizza in due passaggi l’insegnamento di Gesù sulla preghiera.

Per prima cosa, Gesù ci insegna ‘una formula’, da lui inventata, molto originale.

E poi, per seconda cosa, ci insegna ‘lo spirito’ della preghiera, l’animo con cui pregare, che è poi la ragione di fondo per la quale pregare.

Le formule, da sole, non bastano mai. Non bastano le ‘Ave Maria’ del rosario, la recita dei salmi, il rito dell’Eucarestia. Non bastano, perché se queste formule, questi riti, non sono animati dallo spirito che è la fede, non servono a nulla, non contano nulla. Sono solo parole che battono il vento, che ‘pestano il mare’. Rimangono parole vuote, povere, anzi false e menzognere.

Questa è una tentazione non di poco conto, soprattutto per le persone che un po’, almeno un po’, pregano.

È il rischio di ripetere parole, formule, riti, che sono come scheletri senza carne o, meglio, ancora, senza spirito.

D’altra parte, però, le formule e i riti, sono non solo importanti, ma necessari. Lo ‘spirito’ della preghiera, se non prende carne nella preghiera, nelle formule, nei riti, evapora, si svapora, si dissolve in intenzioni (false) che non hanno alcun effetto nella vita.

Non a caso Gesù ci insegna una formula.

È una preghiera bellissima, che dovremmo commentare per una settimana intera. E non basterebbe.

Potremmo fermarci, ad esempio, sulla prima parola e sull’aggettivo che la accompagna. Gesù ci insegna a rivolgerci a Dio non chiamandolo ‘Dio’, ‘essere supremo’, ‘creatore onnipotente’ … Nulla di tutto ciò!

Ci insegna a chiamarlo «Padre», e a dargli del tu.

Già questo ci insegna quale sia lo ‘spirito’ della preghiera cristiana. ‘Nelle’ parole c’è già lo spirito, l’anima della preghiera. È la fiducia, la gratitudine, la relazione con colui che sta all’origine della nostra vita: ‘il Padre’!

Poi c’è l’aggettivo che accompagna l’invocazione «Padre», anche se questo non è presente nella versione di Lc, quella del vangelo odierno, mentre è riportata nella versione di Mt, che è abbastanza diversa e più estesa. È l’aggettivo «nostro».

Dunque anche qui c’è qualche cosa di decisivo riguardo alla ‘spirito’ della preghiera, riguardo al modo di pregare, l’intenzione che ispira la ‘nostra’ preghiera.

È una preghiera non di persone isolate, di singoli individui che, per conto proprio, sbrigano il rapporto con Dio, il Padre. È una preghiera condivisa, la preghiera di un figlio, che prega con altri figli, che quindi per lui ‘come’ dei fratelli.

È una preghiera che dice ‘comunione’, anche se questo non esclude che ci possano essere fatiche, conflitti, difficoltà. Però, nella preghiera, queste esperienze della vita vengono come superate, andando oltre …

E poi ci sono le parole con le quali Gesù ci ispira lo ‘spirito’, l’animo con cui pregare.

Prima, Gesù racconta una parabola e poi la spiega, con degli imperativi cui segue una domanda e poi, di nuovo, un comando.

Il ‘succo’ della parabola è, in modo provocatorio, che, se non per amicizia, almeno per l’«invadenza» dell’uomo che lo supplica, l’altro, cui sono stati chiesti i tre pani, «si alzerà a darglieli».

Per questo Gesù dice: di chiedere, di cercare, di bussare, nell’assoluta certezza che riceveremo, troveremo e ci sarà aperto.

Ecco: questo è lo spirito della preghiera, lo spirito delle formule: l’assoluta confidenza che l’Altro ci ascolta.

Questo non vuol dire che il Signore ci darà sempre quel che noi gli chiediamo.

Se preghiamo con fiducia, ci lasceremo educare a desiderare e a riconoscere sempre più che quel che Lui ci dà è il dono di sé, lo Spirito, Spirito d’amore, perché anche noi possiamo vivere da figli.

don Maurizio



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