La riflessione di don Maurizio Chiodi prende spunto dalle letture proposte dalla liturgia per la XVIII domenica del tempo ordinario, dal Vangelo secondo Luca (Lc 12,13-21), dai brani tratti dal libro del Qohelet (Qo 1,2; 2,21-23) e dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési (Col 3,1-5.9-11).

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La vita è un gran bel dono. Non c’è dubbio!

Essa è ricca di bene e di promesse, ricca di esperienze buone e piena di senso. E tuttavia è altrettanto innegabile che essa comporta fatica, preoccupazioni e anche affanni.

Tutto questo è espresso con grande e luminosa chiarezza dal saggio Qohelet: «quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole?».

A questa domanda, prima o poi, e meglio prima che poi, giunge ogni uomo – uomini e donne – che non si lascia semplicemente vivere, ma si interroga con sapienza sul senso di ciò che gli accade e di ciò che egli fa: “c’è un bene per il quale valga la pena spendere la vita?”.

Dunque: nella vita ci sono pene, sofferenze, fatiche, ma “c’è in essa anche un bene più grande per il quale valga gustarla, fino in fondo?”.

Non dobbiamo essere ciechi.

Molte persone, proprio, e addirittura, in questa nostra società occidentale, dicono che la vita non ha senso. Molti dicono che la vita è una promessa che, a un certo punto, si rivela semplicemente un’illusione, un inganno. Dicono: la vita è piena di affanni, di preoccupazioni. Si corre, si corre, si corre e alla fine non resta nulla. Alla fine, dicono, c’è la morte – per fortuna! – che pone fine a questo inganno.

Da qui la stanchezza, la noia, il non-senso.

Da qui l’affanno legato all’agire, alle cose di tutti i giorni.

Chi è affannato è sempre in ritardo, è sempre di corsa. Non gusta e non apprezza ciò che fa, ciò che vive. Perciò è sempre insoddisfatto, è sempre scontento. Non si ’accontenta’ di ciò che fa, di ciò che è: non è capace di essere contento dei beni che ha e desidera sempre di più, sempre altro. Non sa ‘stare’ in ciò che è e fa.

Legata all’affanno, c’è la fatica. Anche di questo, anzi soprattutto di questo, parla il Qohelet.

La fatica, se ci pensiamo bene, è legata al nostro agire. Ogni nostra azione persegue un obiettivo, magari anche solo quello di riposare. Questo richiede uno ‘sforzo’, un impegno, per ottenere, appunto, qualcosa che non abbiamo e che desideriamo.

La fatica non è solo e soprattutto una questione fisica. La fatica è legata allo sforzo e questo è di diverso genere, non solo fisico.

In uno sforzo, quanto più avverti la distanza tra ciò che tu fai e il bene al quale tendi, tanto più avverti la fatica.

Quante volte le nostre azioni, le nostre scelte ci sembrano inconcludenti! Ci sembra allora, che non conducano da nessuna parte. Ci sembrano vane!

È proprio questo che denuncia il Qohelet: la tentazione della vanità!

Attenzione: Qohelet non è uno scettico, un disincantato, che guarda alla vita con gli occhi di chi dice: non conta nulla! Al contrario, il Qohelet sa bene che il rischio della fatica è di portarci a fuggire dalle cose, dagli impegni, dallo sforzo. Per questo si domanda: “c’è un bene per il quale vale la pena fare fatica nella vita?”. Se non c’è, allora, tutto è vanità! Se invece c’è, allora, nulla è vanità! Se non c’è questo bene, tutto diventa vano, «dolori e fastidi penosi». Se non c’è, questo bene, non troviamo riposo neppure nella notte.

La domanda di Qohelet va al cuore della vita.

Tutto, nella nostra vita, dipende da come rispondiamo alla sua questione …

Il Vangelo, ci chiede di proseguire su questa linea di pensieri e di meditazioni. Una delle più grandi trappole è la cupidigia: una parola che quasi non usiamo più, perché – spesso – ci rivela la profondità del nostro vivere e, allora, preferiamo non pensarci.

Preferiamo nascondere a noi stessi la nostra trappola!

Gesù dice, con grande sapienza: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Ecco che cos’è la cupidigia: è la pretesa di far valere la nostra vita sulla base e nella misura di ciò che ‘possediamo’: le nostre ricchezze, i nostri beni.

Nella cupidigia quel che ho non basta mai, è sempre poco, vorrei sempre qualcosa di più.

La cupidigia è causa anche di moltissimi conflitti, litigi, invidie e guerre.

La Parola di Gesù, che abbiamo ascoltato, nasce proprio dal litigio di due fratelli. Uno dei due, dalla folla che lo sta ascoltando, gli dice: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Quest’uomo, a torto o a ragione, non lo sappiamo, è convinto di aver subito un’ingiustizia da suo fratello e chiede a Gesù di far da «mediatore», appunto perché vede in Lui un uomo saggio.

Gesù, invece, proprio perché è saggio, si sottrae e va alla radice del conflitto.

In questo caso, suggerisce Gesù, il litigio nasce dalla cupidigia.

Così, racconta una splendida parabola, la consegna a quell’uomo e al suo fratello, perché, istruiti dalla sua parola, siano loro a venire a capo del loro conflitto.

La situazione raccontata nel Vangelo è tipica di ogni tempo. Anche dei nostri giorni! Sono i ‘conflitti’ legati alle eredità.

Gesù racconta una storia molto istruttiva, che è collegata alla sapienza del saggio Qohelet.

La parabola parla «di un uomo ricco» che aveva molti beni e li aveva messi a frutto, con grande sforzo e lavoro. Fu così che, una volta, anche per una serie di circostanze, la campagna di quest’uomo produsse «un raccolto abbondante».

Pensando tra sé e sé, quest’uomo fece una serie di progetti. Non aveva dove mettere il suo raccolto. Perciò decise, quest’uomo, di demolire i suoi antichi «magazzini», per costruirne altri più grandi, per poterci mettere «tutto il grano» e tutti i suoi beni.

Che cosa c’è di male in tutto ciò? Forse che Gesù condanna l’impegno a lavorare? Forse che Gesù sogna una vita che si ‘accontenta’ del poco o del nulla? Forse che Gesù ci invita a essere lazzaroni e fannulloni?

No, di certo.

La vera domanda è: “perché lavoriamo? Perché ci affatichiamo? Perché ci impegniamo?”.

Il rischio, gravissimo, è proprio la vanità.

Se ci affanniamo solo per avere di più, allora facciamo dipendere la nostra vita, la sua bellezza, da ciò che possediamo. Siamo ‘felici’, o crederemo, illudendoci, di esserlo, solo se riusciamo ad avere sempre di più di quel che abbiamo.

Così, vivremo nell’invidia per chi ha più di noi!

Quest’uomo, nella parabola, sembra soddisfatto.

Dopo tanta fatica, infatti, dice: “Oh, finalmente, adesso che hai tanto lavorato, riposati, approfitta di tutto quel che hai guadagnato. Finalmente, goditi la vita …”. In realtà, spinto dal desiderio di accumulare cose, egli non sa trovare e gustare in esse davvero dei beni.

Perciò quest’uomo è cieco: «questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita». Quest’uomo è stolto. Non ha fatto il conto con la morte.

Così, «dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato», dice il Qohelet.

E lo dice anche Gesù: «e quello che hai preparato, di chi sarà»?

Questa domanda dice un’evidenza che è sotto gli occhi di tutti, anche di chi non crede.

Ecco, proprio questo c’è in gioco qui: la fede!

Se tu non credi, la morte sanziona la vanità di tutta la tua vita, rendendola affanno, preoccupazione, fatica.

Se invece credi, allora la fatica avrà un senso: sarà un arricchirti «presso Dio». Sarai ‘contento’ dei beni che Lui ti ha dato e della tua fatica per ottenerli.

Il bene non cancella la fatica, ma la rende grata!

don Maurizio