La riflessione di don Maurizio Chiodi prende spunto dalle letture proposte dalla liturgia per la XXII domenica del tempo ordinario, dal Vangelo secondo Luca (Lc 14,25-33), dai brani tratti dal libro della Sapienza (Sap 9,13-18) e dalla lettera a Filèmone (Fm 9b-10.12-17).

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La Parola di Dio, in questa domenica, è sorprendente, senza dubbio. Per la verità, questa Parola è – dovrebbe essere – per noi sempre sorprendente, ma per la nostra distrazione o per la durezza del nostro spirito, spesso, non lo è affatto. Anzi, di solito è una Parola che non ci scuote affatto, non ci ‘muove’, non ci ‘commuove’, non ci sorprende. Così, in certe occasioni, questa Parola si rivela in modo particolare per quello che essa è sempre.

Ma dove sta tutta la sorpresa di questa Parola? Partiamo dal libro della Sapienza: «a stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo con fatica quelle a portata di mano; ma chi ha investigato le cose del cielo?».

L’autore del libro della Sapienza è un ebreo che viveva nella diaspora, ad Alessandria d’Egitto, probabilmente. Un uomo che conosceva bene il mondo greco e la sua straordinaria sapienza e conoscenza. Eppure quest’uomo confessa: «scopriamo con fatica… [le cose] a portata di mano» …

Certo, noi oggi potremmo obiettare che, invece, rispetto a duemila anni fa, abbiamo fatto delle scoperte strepitose. Oggi ci sembra di avere la capacità di aprire i segreti della natura come si apre una scatoletta di tonno. Ma non è affatto tutto così facile come sembrerebbe a prima vista.

È vero che noi oggi abbiamo fatto scoperte straordinarie, ma queste hanno un altissimo prezzo: ‘costano’, più che in denaro (anche quello!), ore e ore, anni e anni di studi, di ricerche, di fallimenti e di aperture improvvise! E, ancor più, tutto questo non deve farci cadere nella ubriacatura delle nostre scoperte, scientifiche e tecniche. Sono infatti infinitamente di più le cose che non conosciamo, di quelle che conosciamo. Ogni ‘scoperta’ è la scoperta di nuove vie, di nuovi sentieri, che spesso non sappiamo nemmeno dove portano. Ecco, il rischio delle nostre attuali conoscenze è proprio di dimenticare l’orizzonte più ampio della vita. È il rischio che nella scienza ci sia tutta la sapienza.

E, invece, già il sapiente biblico, ci ammonisce: se presumi troppo delle cose che sai, allora non sei sapiente. Se dimentichi che quello che sai è molto di meno, infinitamente di meno di ciò che non sai, allora non sai nulla: sei uno stolto. È saggio davvero solo chi sa di non sapere. «I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni» …

Non è finita qui.

Il sapiente dice che non solo noi «a stento immaginiamo le cose della terra», e con grande fatica, ma ancor più si domanda: «ma chi ha investigato le cose del cielo?». Cioè: chi ha investigato e scoperto Dio? «Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?».

È bella questa formula del saggio. Quando un uomo si mette a pensare Dio, è come se vagasse nella nebbia; non nel nulla, ma nella nebbia. Vede di non vedere. Sa di non sapere. Non sa ancor più di tutto quel che non sa delle «cose della terra». «Le cose del cielo» sono per noi ancor più, immensamente grandi, incomprensibili. Per questo siamo in continua ricerca. Per questo i dubbi che riguardano la nostra fede, in un certo senso, non solo sono compatibili, ma sono necessari. Un credente che pretende di sapere tutto del suo Dio, lo ha trasformato in un possesso geloso e finisce per fabbricarsi un Dio a suo piacimento e secondo i suoi comodi!

Infine, però, c’è un terzo passo che ci invita a fare, il sapiente: «chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?». Ecco, in fondo, la sapienza è un dono di Dio. È Lui che si rivela a noi, perché noi possiamo scoprire qualche piccolo sprazzo della sua luce e della sua bellezza. Mentre noi cerchiamo Lui, è Lui che si rivela a noi.

Ecco qui la sorpresa: è Dio che ci sorprende venendoci incontro, mentre noi cerchiamo Lui!

È su questo sfondo che ci vengono incontro le parole, sapientissime, di Gesù nel Vangelo. Sono tre i messaggi di fondo di questo bel Vangelo.

C’è «una folla numerosa» che segue Gesù. Affascinati dal suo modo di parlare, dalla sua sapienza, lo seguono, vanno con Lui, lo cercano. Allora Gesù «si voltò». È chiaro: Lui va avanti. Si volta per parlare loro, come per guardarli in faccia. Ha qualcosa di decisivo da rivelare e da dire: «se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli … e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Potrebbero sembrare, queste, le parole di un arrogante e di un ammaliatore, quasi uno che vuole ‘stregare’ e sedurre le persone, per condurle a sé e così renderle schiave. È esattamente il contrario! Gesù è tutto meno che un seduttore, uno che ti imbroglia, promettendoti il paradiso per poi darti l’inferno. Qui Gesù rivela la pretesa di Dio: rivendica per sé quello che il sapiente diceva di Dio stesso. È Lui la fonte di ogni sorpresa. Se tu ami Lui, allora trovi tutto. Per amare il Signore, a me discepolo è chiesto di amarlo come il mio Signore: perciò lo amo più di tutto. Non perché, amando Lui, smetto di amare gli altri o li metto in secondo piano. No! Amando Lui, invece, rimetto gli altri e perfino me stesso al posto giusto. Non trasformo me, o qualcun altro, in Dio, ma trovo me e l’altro in Dio. È solo dedicando la mia vita ad un amore grande come quello che è Gesù che allora trovo la pienezza del dono della vita. Solo allora riscoprirò perciò come padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle … tutto ciò è un segno dell’amore suo per me, della grazia sua per la mia vita.

La seconda idea è suggerita dalla parola che segue: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo». Quante volte abbiamo compreso questa Parola di Gesù in modo ‘dolorista’! Come se, per essere discepoli, dovessimo abbracciare la croce, che di solito identifichiamo con i dolori della vita – ma non è così, perché molti dolori non sono affatto ‘croci’, perché non nascono dall’amore (questo è la croce di Gesù!), ma semplicemente dal nostro egoismo e dalla nostra miopia -. Così diamo della fede cristiana, una versione ‘triste’, ombrosa, ‘afflitta’, oppressa dal giogo della colpa e della legge. Non è così! Gesù ci chiede di andare dietro a Lui, questo è l’essenziale del Vangelo, disposti ad andare fino in fondo, fino alla croce, dove Egli dona la sua vita per noi, che allegramente pensiamo di dover salvare Lui, nel migliore dei casi, o che siamo i primi a rifiutarlo, scandalizzati da questo Dio.

Prendere ogni giorno ‘la propria croce’ significa seguire il Signore Gesù, fino in fondo, nel cammino quotidiano, a volte faticoso, contro corrente, ma sempre pervaso dall’intima gioia di ‘stare’ con Lui. Questa, in fondo, è anche la terza idea delle due piccole parabole che concludono il Vangelo di oggi. A chi costruisce la torre è chiesto di andare fino in fondo e di non rimanere a metà, lasciando la torre mezza incompiuta. Così, a chi va in guerra è chiesto di andare fino in fondo, fin dal principio, perché altrimenti inizia una battaglia che è già persa. Così, se uno vuole essere di quelli di Gesù, per seguire Lui abbandona tutto il resto e, grazie a Lui, ritrova tutto quello che credeva di aver perduto.

Questa è la sapienza di Gesù. Questa è la sapienza – il nostro cammino! – di ogni buon discepolo!

don Maurizio