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Dio è misericordia, grazia, amore sovrabbondante

La riflessione di don Maurizio Chiodi prende spunto dalle letture proposte dalla liturgia per la XXII domenica del tempo ordinario, dal Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-32), dai brani tratti dal libro dell’Esodo (Es 32,7-11.13-14) e dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (1Tm 1,12-17).


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C’è una parola che domina in questa Parola odierna. È un nome che noi attribuiamo a Dio ed è come il ‘succo’ e l’essenza, quasi il profumo, del Vangelo di Gesù. È: misericordia! Dio è misericordia, e cioè grazia, amore eccessivo e sovrabbondante, riversato su di noi senza misura.

Qualcuno, oggi, si risente di questa parola perché, dice, se ne parla troppo e a sproposito. Dicono che, a forza di parlare della misericordia di Dio si finisce per dimenticare la sua giustizia e si fa diventare tutto uguale. Si dice, l’insistenza sulla misericordia deresponsabilizza e, addirittura, ‘sdogana’ i peccatori.

Questo modo di parlare è molto umano, anzi ‘troppo’ umano. In fondo, dietro a questa accusa c’è lo stesso pregiudizio di coloro che questi difensori della ‘giustizia di Dio’ vorrebbero ‘combattere’ con tanta foga …

Un ascolto profondo di questa Parola, oggi, ci aiuta a superare queste nostre piccole polemiche e ci insegna a ‘volare alto’. Ci dà uno sguardo grande, che è quello di Gesù. Ma è una Parola da ascoltare bene.

Comincio dalla seconda lettura, dalla prima lettera di Paolo a Timoteo.

L’apostolo scrive, nel saluto iniziale, della sua immensa gratitudine a Gesù, per la misericordia che ha avuto per lui. «Prima – dice Paolo – ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento». “Ora, invece, non mi resta che dire grazie”: «rendo grazie a … Cristo Gesù».

E perché mai rende grazie con tanta forza? “Io ero quello che ero, dice Paolo, «ma mi è stata usata misericordia … e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato …»“. Ecco, misericordia, grazia, da parte di Dio; gratitudine riconoscente, da parte dell’uomo, da parte di Paolo.

Questo potremmo dire è il Vangelo di Paolo. È il Vangelo!

Dietro la parola ‘misericordia’, grazia, vangelo, c’è una domanda: quale è l’immagine di Dio che noi abbiamo?

La prima lettura, dal libro dell’Esoso, è molto acuta e istruttiva da ascoltare.

Ai piedi della montagna, il Sinai, c’era il popolo di Israele. Lassù, in cima, in mezzo all’uragano c’è Dio e c’era Mosè. Era lassù da quaranta giorni e sembrava non tornare più. È in questo lunghissimo tempo di attesa che il popolo di Israele perde la pazienza di aspettare.

Così, si ‘costruisce’ un’immagine di Dio a propria somiglianza: «si sono fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: “Ecco il tuo Dio, Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”». Questa è la tentazione di tutti gli uomini: farsi un dio a propria immagine, farsi un dio con le proprie mani.

Apparentemente è Dio, in realtà, però, è un dio, un idolo.

L’idolo, che è fatto dalle mani dell’uomo, rappresenta semplicemente se stessi, coloro che lo hanno fatto. L’idolo è la maschera di sé.

Questa è la più grande tentazione, contro cui ci mette in guardia il primo e anche il secondo comandamento. È la tentazione di immaginarci un dio a nostra misura.

Il brano dell’Esodo continua, poi, in un dialogo tra Mosè e Dio e si conclude con queste parole: «Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo».

È un’espressione che va bene intesa: Dio è pentito non perché Mosè sia più buono di Lui. Questo ‘pentimento’ di Dio significa che Egli è infinitamente disposto a perdonare, perché l’uomo si converta a Lui.

Dio ‘si pente’ perché noi ci pentiamo. La sua grazia, la sua misericordia sono per noi un appello a rispondere, a metterci in ‘gioco’, a deciderci per Lui.

Accogliere la sua misericordia: questa è la ‘giustizia’ che Dio si aspetta da ciascuno di noi.

È su questo sfondo che possiamo/dobbiamo leggere il bellissimo Vangelo di Luca. È un Vangelo molto lungo e altrettanto famoso. È un Vangelo che, parlando di Dio, ci parla di Gesù. è Gesù stesso che parla di Dio … ma parlando di Dio parla di sé.

Questo è evidente fin dall’inizio: i farisei e gli scribi mormorano contro di Lui, dicendo sdegnati e scandalizzati: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Sono arrabbiati, questi scribi e questi farisei! A loro sembra ingiusto, profondamente ingiusto, che Gesù si comporti così: è, alla fine, un complice di questi uomini e donne cattivi … Così pensano tra di loro, mormorando …

Questo è uno dei termini tipici con cui nell’Antico Testamento si parlava del peccato: mormorazione! Loro, che mormorano contro Gesù che ‘accoglie’ i peccatori, loro, in realtà sono i peccatori che non si lasciano accogliere da Gesù. Così, loro stessi si autoescludono dalla misericordia di Dio! La loro pretesa di giustizia fa perdere la misericordia e la grazia!

Così Gesù racconta tre meravigliose parabole, perché – staccandosi un po’ da sé e dai propri imbrogli mentali – queste persone possano aprirsi al Vangelo della grazia.

Le prime due sono delle perle, piccole, brevi, ma molto chiare, addirittura limpide.

Questo pastore, che lascia novantanove pecore, per andare a cercare «quella perduta», non è uno sciocco che, quando torna indietro, dovrà andare a cercare non una, ma tutte le novantanove che, mentre lui era a cercare quella perduta, si sono perse a loro volta.

Questa parabola, nel paradosso, dice il Vangelo di Dio nel modo più chiaro: per ciascuno di noi, Dio è disposto a fare qualunque cosa. Dopo la Pasqua, possiamo dire che, per ciascuno di noi, Dio è disposto perfino a morire!

In modo analogo, la seconda piccola parabola, dice la pazienza infinita di Dio, che è come quella della donna che ha perso una sola di dieci monete. Quella donna ha spazzato tutta la casa, ha cercato con infinita cura, «finché» non ha trovato la moneta perduta.

Alla fine, tutte e due le parabole raccontano della gioia di Dio che ha potuto ‘ritrovare’ chi si era allontanato da Lui.

Naturalmente, la terza parabola è il gioiello, incastonato tra le altre due, come il loro compimento svelato.

È una parabola molto famosa. È giocata sulla ‘contrapposizione’ di due fratelli. Sono l’uno l’opposto dell’altro.

Il primo è uno scapestrato, non riconoscente, un incosciente: è un giovane baldanzoso che cade vittima dei suoi sogni e delle sue illusioni. Alla fine si ritrova solo, povero, abbandonato da tutti.

Il secondo è un ‘figlio’ tutto casa e lavoro, serio, senza grilli e fronzoli per la testa. Apparentemente, questo è un uomo perfetto. Ma, a sentirlo parlare ‘contro’ il padre si scopre come dietro l’apparente giustizia era un uomo pieno di risentimento, pieno di invidia verso il fratello. È un uomo profondamente insoddisfatto della sua vita. Per questo ‘rinfaccia’ al padre la sua eccessiva bontà, come se questo padre fosse un ingenuo che si lascia imbrogliare dal primo fratello, approfittatore e furbastro.

Ma il centro della parabola non sono i due fratelli. Il centro o la punta della parabola è questo padre: attende da lontano il primo figlio e, quando lo vede, ha compassione, commuovendosi per lui fino alle viscere, gli corre incontro, gli si getta al collo, lo bacia. Non ascolta nemmeno la ’confessione’ di questo figlio scapestrato. Fa una festa immensa per lui: una festa esagerata. È la festa della gioia del figlio ritrovato.

Questo padre esce incontro anche all’altro figlio, che – contrariamente al primo – non vuole entrare. Per questo secondo figlio le parole di affetto, di amore, di compassione, di infinita pazienza.

Entrerà questo figlio, che si crede giusto, alla festa del padre misericordioso, ricco di grazia?

La risposta, per ciascuno di noi, è affidata non alla parabola, ma alla nostra vita!

don Maurizio



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