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Adozione Internazionale. Come abbiamo superato i cortocircuiti della accoglienza

Nessuno si era reso conto della sua menomazione: non l’istituto, non i medici che l’avevano curata, non le autorità né il Tribunale. Ma, se ciò fosse accaduto, il suo destino sarebbe stato quello di rimanere abbandonata per sempre!

Come abbiamo superato i “cortocircuiti dell’accoglienza“? Cominciando proprio dall’inizio del nostro percorso adottivo abbiamo percepito un primo cortocircuito compilando la domanda per il tribunale: c’era un foglio dove bisognava esprimere le disponibilità, era fatto a caselline e si doveva barrare il quadratino vicino alla riga delle varie “tipologie” (età, malattie, invalidità). Ci ha un po’ disorientato… non stavamo scegliendo un frigorifero!!! Non so se sia ancora così, sono passati 21 anni abbondanti.


Il cortocircuito davvero fastidioso è stato nel suo complesso il percorso “ostico” con i servizi sociali: anzitutto l’approccio del tutto “asettico” e freddo nella programmazione del percorso (dopo un primo colloquio informativo collettivo, con un’altra decina di coppie, fissato circa tre settimane dopo il primo colloquio del percorso poi, essendo ormai cominciato luglio, la programmazione del secondo colloquio è stata rinviata a settembre, dopo le vacanze e di fatto programmata per i primi di ottobre); soprattutto il contenuto di quei colloqui: sembrava che pretendessero risposte da genitori navigati e perfetti alle loro domande su come ci saremmo comportati da genitori adottivi riguardo un problema o l’altro, dando per scontato che di problemi ne avremmo avuti tanti… per fortuna, tutto ciò naturalmente non ci ha fatto desistere! Perfino dopo il rientro in Italia (tre anni dopo il percorso per l’idoneità, e anche questa volta all’inizio dell’estate), sempre le care signore dei servizi sociali di zona non hanno praticamente voluto nemmeno conoscere nostra figlia Jussara, limitandosi a convocarci per gli incontri obbligatori di “affidamento preadottivo” da soli… anche questa cosa ci ha lasciati “sconcertati”: non avrebbero dovuto verificare che il bambino o la bambina stesse bene con noi? Con i nuovi e inesperti genitori?

Della nostra esperienza brasiliana è forse interessante ricordare un elemento, probabilmente marginale, ma riaffiorato alla mente. Nella seconda parte del soggiorno in Brasile, quando ormai non solo avevamo deciso che quella bambina era nostra figlia, qualunque cosa accadesse, ma lo era già anche secondo la legge brasiliana, nelle nostre quotidiane visite al centro commerciale di Belo Horizonte avevamo trovato in libreria uno di quei manualetti che spiegano il significato dei nomi di battesimo, quasi che in una specie di cabala si debba comprendere dal nome il carattere e le attitudini di ciascuno di noi. E se la Bibbia è piena di figli che vengono “battezzati” con un nome che significa la loro origine, da parte nostra abbiamo un po’ giocato invece a scoprire quale “cifra”, quale destino fosse scritto nel nome di Jussara, che lo aveva ricevuto da chi la mise al mondo.

Così scoprimmo che Jussara, oltre ad essere il nome di una specifica varietà di palma, significa “da pessoa que tem espinhas”, è quindi colei che ha e porta con sé delle spine: non soltanto nel senso della persona vivace, sempre in movimento, come appunto chi sta sulle spine, ma anche nel senso della persona toccata dalle sofferenze… E, insomma, pare che ci siamo affezionati non poco, per dir così, a questa immagine, come se questo destino ci chiamasse ad un compito che ancora non riuscivamo a comprendere fino in fondo.Anche questo un “cortocircuito”?

Ma, soprattutto, in Brasile abbiamo avuto esperienza, al contrario, di uno di quei cortocircuiti “selettivi” che stiamo cercando di tratteggiare. Solo una volta tornati in Italia, e non subito, ma a distanza di quasi un anno, quando abbiamo avuto la certezza “certificata” della sordità di Jussara, ci siamo resi conto che la sua condizione, anzi il non sapere della sua reale condizione aveva consentito a Jussara di essere inserita e rimanere nel percorso adottivo.

Nessuno si era reso conto della sua menomazione: non l’istituto che l’aveva accolta, non i medici che l’avevano curata, non le autorità e il Tribunale che avevano costruito il suo percorso adottivo. Se ciò fosse accaduto, il suo destino sarebbe stato quello di rimanere nella “creche”, per sempre: poco o per nulla attraente per il circuito dell’adozione nazionale che in Brasile è fatto spesso di adottanti che scelgono e certo non preferiscono una bambina sorda. Ma anche esclusa dal circuito dell’adozione internazionale, dove alle coppie disponibili ad accogliere un bambino “con problemi” si aprivano le numerosissime disponibiltà dell’adozione nazionale, senza bisogno di andare all’estero. Almeno così le cose andavano allora, quando ancora non era stata inventata la categoria degli “special needs”.

Che questo fosse un cortocircuito, anche senza chiamarlo con questo nome, ce ne accorgemmo ripensando a quella bambina di circa dieci anni (Jussara non ne aveva ancora tre) che ogni volta che entravamo nell’istituto ci veniva incontro con un sorriso tanto buono quanto indimenticabile e, parlando a gesti, ci ringraziava ogni volta e ci esprimeva la sua incontenibile felicità nel vedere che Jussara diventava nostra figlia e nel giro di qualche settimana l’avremmo portata per sempre con noi.

Era una bambina sorda e incapace di parlare, ma forse era l’unica che aveva davvero capito quale fosse la condizione di Jussara e cercava in qualche modo di dircelo, insieme alla sua felicità per lei e per noi.

Anche le nostre famiglie d’origine ci hanno procurato qualche “cortocircuito” all’inizio, loro probabilmente mettevano al centro i loro figli (cioè noi) e non la futura nipote. I giorni dell’abbinamento siamo stati più volte sollecitati a pensare bene a cosa stavamo andando incontro (pensando alle problematiche che si leggevano tra le righe della scheda, per la verità nemmeno troppo ricca di particolari), ed anche al nostro rientro in Italia con la nostra piccoletta i pensieri dei nostri erano rivolti più al fatto che si dovesse correre da un medico all’altro che non alla sua tranquillità nella nuova famiglia. Noi sempre avanti come panzere forse davvero questi problemi si sono trasformati in sfide, ma alla fine (anzi, tutto sommato abbastanza presto) anche nei nonni è prevalso l’innamoramento per la nipotina.

Abbiamo sperimentato, soprattutto nei primissimi anni, una specie di indifferenza abbinata ad una curiosità morbosa l’ambiente esterno: ad esempio, quando ti fermano per la strada chiedendoti se è tua figlia e come mai se è tua figlia è così scura… o, ancora, chi te l’ha fatto fare di adottare una bambina con così tanti problemi… per poi concludere “ma come siete bravi!”… Purtroppo la mentalità della gente è dura a cambiare, perché sembra che facciano differenze tra la genitorialità naturale da quella adottiva, come se, visto che lo prendi già fatto, allora che te lo diano perfetto! Ce ne sarebbero un’infinità da raccontare…

Guardando all’indietro a tutti questi anni, se ripensiamo a tutti i commenti ricevuti o riferiti possiamo dire che abbiamo imparato a rispondere: alla gente e, tutto sommato, anche a noi stessi. Sicuramente non ci ha mai abbandonato la convinzione di aver fatto la cosa giusta: ne abbiamo la migliore conferma ogni giorno guardando negli occhi nostra figlia. Lei stessa non tanto tempo fa ci ha detto: “grazie, avete fatto proprio bene a venire a prendermi, sono proprio contenta!” Questo sì che è un bell’incentivo a mantenere alta la certezza che l’accoglienza è bella anche se faticosa e che non bisogna lasciarsi scoraggiare dai “cortocircuiti” che si mettono di mezzo e che potrebbero fuorviarti.

E’ anche vero che nel corso di questi ormai 18 anni abbondanti abbiamo sperimentato un po’ di difficoltà, non tanto legate, almeno all’apparenza, alla condizione dell’abbandono ed all’adozione. Diciamo che per noi è stato naturale viverle come difficoltà “di famiglia”, abbiamo trovato del tutto naturale farci forza a vicenda come coppia di genitori.

Abbiamo certamente avuto la fortuna che il nostro percorso di genitori sia stato parallelo alla stagione fortunata della nascita dei Gruppo Familiare milanese di Ai.Bi. – Amici dei Bambini , cosicché non abbiamo nemmeno sentito la necessità di andare ala ricerca di gruppi o di professionisti. E bisogna anche aggiungere che, soprattutto nei primi anni, quando Jussara ha avuto bisogno di medici specialisti per fronteggiare le sue patologie, abbiamo sempre trovato sulla nostra strada medici molto attenti anche al profilo psicologico. Diciamo che siamo stati travolti da talmente tante cose da fare per lei che probabilmente la nostra vera forza per superare i cortocircuiti è stata ed è ancora oggi proprio nostra figlia.

Renata Rigoni e Giovanni Solfrizzi

La Pietra Scartata – Comunità della Regione Lombardia



L’Associazione LA PIETRA SCARTATA da anni accompagna e supporta le famiglie nella vocazione a prendersi cura dei bambini abbandonati o temporaneamente allontanati dalla propria famiglia, conservando o restituendo loro la dignità di figli, mentre si rende testimonianza dell’Amore di Dio nell’accoglienza familiare affidataria o adottiva, secondo il carisma proprio del sacramento matrimoniale, vissuto nell’ambito fecondo delle relazioni coniugali.


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