Davanti a disgrazie o eventi catastrofici, spesso ci si chiede “dove sia Dio” e perché abbia permesso che si scatenasse tanto dolore. Un interrogativo che parte da un fraintendimento di fondo e su cui vale la pena riflettere

 La domanda sulla possibile relazione tra Dio, la sua presenza, la sua volontà e gli eventi che caratterizzano la nostra vita o quelli “naturali” e catastrofici è tornata, di nuovo, e tornerà ancora…
Le formule in cui viene espresso tale interrogativo sono simili (tra le più comuni, per esempio, “come può Dio permettere un terremoto?”) e in genere tradiscono alcuni ricorrenti fraintendimenti sull’identità di Dio e sulle sue intenzioni; inoltre, tali formule introducono, potremmo dire quasi spontaneamente, una (s)pregiudicata impostazione della questione da cui, invece, servirebbe allontanarsi o emanciparsi.

Una certa immagine di Dio, della sua relazione con la natura, la storia, gli eventi, l’uomo, non corrisponde propriamente al volto di quel Dio accessibile e conoscibile per tramite di Gesù Cristo. È piuttosto il profilo di divinità pagane – antiche o contemporanee che siano, talune pseudocristiane – che viene presupposto e utilizzato per avanzare un legittimo problema senza tuttavia evitare che lo svolgimento della questione prenda tracciati ora ingenui, ora contraddittori, ora blasfemi, ora senza esito, ora presuntuosi, ora …
Senza alcuna pretesa, accenno solo a qualche diverso quesito, con alcune considerazioni e qualche spunto per istruire un possibile diverso percorso, senza tuttavia distogliere di un millimetro lo sguardo dal dramma e dallo “scandalo” della catastrofe sia quando essa ha origini “naturali” (terremoto, eruzione, …), sia quando è l’esito di iniziativa umana (guerra, discriminazioni, povertà, …), caoticamente vissuta o spregiudicatamente e intenzionalmente perseguita.

Dio conosce bene la libertà e il rispetto della dignità di ogni suo figlio

Le ipotesi sono proposte prendendo spunto e osservando la traccia del sentiero percorso da quanti hanno vissuto “catastrofi” relazionali (l’abbandono, la perdita di relazioni fondamentali, il limbo dell’esistenza, …) o rilevato proprie condizioni di vita inattese o irreversibili (infertilità, sterilità coniugale…).
Sono ormai molti i figli abbandonati e i coniugi sterili che ci parlano di un profilo del Dio cristiano che non corrisponde a quello dell’artefice dell’abbandono o della sterilità; neppure secondo un’edulcorata versione, della ipotetica e acida prova imposta propedeuticamente a “fin di bene”.

Il Dio di Gesù Cristo, come ogni buon genitore, viene descritto come il Padre/colui/colei che non si sostituisce al figlio (generato, creato o adottato) nel momento della prova, per quanto ardua e difficile: conosce bene la libertà e il rispetto della dignità di ogni suo figlio e per nessuna ragione accetterebbe di sacrificarle sull’altare di un compromesso, una subordinazione o sudditanza, ambizioso di un presunto amore di mero scambio.
Se l’abbandono nella vita di una persona viene a prodursi, questo non trova origine o motivo in una presunta volontà (distorta) di Dio; se la sterilità coniugale si presenta, anch’essa non trova origine in Dio, neppure quale forma di percorso formativo o itinerario per una selezione di eletti privilegiati. La disgrazia non è mai una grazia; per grazia di Dio possiamo stare di fronte alle disgrazie, senza farci annientare da queste.

Al presentarsi dell’abbandono o della sterilità, Dio si rende subito accessibile (non è mai reticente anche quando pare a noi assente o in silenzio) per accompagnarci nella comprensione della modalità umana dello stare di fronte a tale evento, suggerendo come attraversarlo senza smarrire l’identità e la dignità propriamente umane. Gesù non ha evitato il tradimento, le ingiurie, la delusione, la morte: ha attraversato ogni singolo momento, chiedendo di restare una vera, autentica, persona; non ha evitato le provocazioni e le tentazioni, ha mostrato uno sguardo diverso sul mondo, sulla sua morte e sulla storia, in grado di affermare che la morte, il ricatto, il terrore, la subordinazione non sono i modi di Dio per affermare la propria presenza e identità.

Le parole “nuove” della preghiera del Padre Nostro

Abbiamo recentemente cambiato il modo italiano di pregare insieme col “Padre nostro”; la preghiera suggerita da Gesù non è cambiata, è mutata la formula italiana di tale preghiera che per troppo tempo aveva in qualche modo autorizzato un’idea non proprio coerente. “Dio Padre non indurci in tentazione”, si pregava, supponendo l’ipotesi che Dio potesse agire in tal modo. Ora, meglio chiediamo, “non abbandonarci” nel momento, nell’occasione della tentazione, affinché io possa affrontarla e attraversarla da figlio tuo, colmo di non ingenua speranza, di intraprendenza non reticente, ma generosa e solidale, non soffocato dal solo dolore e affranto da un irreversibile destino: la morte, così come l’abbandono, non hanno l’ultima parola nella nostra vita.

Ecco, quindi, che anche di fronte a qualsiasi altro evento o condizione, gli interrogativi potrebbero essere svolti in altro modo: chissà se è Dio che ci sprofonda nelle catastrofi o se invece Dio ci assicura di esserci sempre accanto quando queste si presentano nella nostra storia?
Chissà se Dio ci abbandona, si distrae, si dimentica di noi o se è quel Padre che resta pronto ad accompagnarci e sostenerci nell’attraversare la vita, senza sostituirci, anche quando si presenta col volto della catastrofe, con lo sguardo della speranza, non senza dolore, liberi dalla tentazione di restare sequestrati e mortificati nella disperazione?
Chissà se Dio ci punisce o ci protegge in virtù di presunti meriti o demeriti, o se Dio ci sollecita a stare immersi nella nostra storia, in qualsiasi condizione questa si presenta, cogliendone sempre un’occasione di possibile grazia, malgrado il subdolo tentativo della morte e dei suoi diversi volti, di presentarsi come “l’ultima parola” e il senso – malvagio – della vita?

Nell’accoglienza adottiva e affidataria, nessuna maceria relazionale resta necessariamente inerte e nessuna infertilità condanna alla irreversibile sterilità: un bambino può tornare ad essere figlio generato nell’accoglienza (malgrado qualsiasi esperienza abbia dovuto attraversare) e anche la sterilità può trovare un’autentica forma di fecondità che nulla ha da invidiare a quella biologica, naturale, artificiale o surrogata che sia.
Certo la trasformazione o conversione di prospettiva non è automatica e il senso della reciprocità, filiale e genitoriale, nell’accoglienza adottiva è tutta da scoprire: sono tracce di quel “mistero della vita”, vissuta autenticamente nella libertà, che non è inaccessibile e incomprensibile, ma si schiude e diventa accessibile se lo si cerca, se non si smette di avere il coraggio di comprenderlo e attraversarlo, anche quando chiede – oltre a intraprendenza, prossimità, generosità, solidarietà, … – un ultimo, se si vuole sublime, gesto di fiducia, di affidamento, che nell’attraversare la morte raggiunge una delle vette più ardue. “Sia fatta la tua volontà” non è la preghiera con cui abdichiamo e ci sottomettiamo a un Dio che ci vuole annientare, ma è l’invocazione che esprime piena fiducia in Dio, nella sua operosa prossimità, consapevoli di essere chiamati a vivere come se tutto dipendesse da noi, sapendo che non tutto dipende da noi.

Come ha ben proposto padre E. Scognamiglio, nella prospettiva cristiana “il silenzio di Dio che può curare le nostre ferite” in molti momenti della nostra vita “è la non-Parola che Gesù crocifisso diventa e resta nel Venerdì santo, il giorno maledetto del mondo, ove muore il Figlio di Dio e la morte entra in Dio. È il silenzio del morente, dell’abbandonato, che condivide il dolore innocente e iniquo del mondo. Il cristiano risponde, così, innanzi a certe tragedie, con la solidarietà, l’impegno, la generosità, la prossimità, il prestare soccorso, la giustizia resa, la condivisione dei propri beni, l’attenzione agli ultimi, ai poveri, a chi muore per il gelo, perché rimasto senza tetto, senza famiglia, privo di ogni legame o ricordo. È il silenzio che diventa azione, coraggio, fiducia, che crea speranza, che rimette in gioco la nostra vita, che non autorizza nessuno a piangersi addosso. È il silenzio di chi sa operare, di chi si mette in cammino con solerzia e diventa protagonista della propria vita, ricostruendola mattone su mattone, casa per casa, focolare per focolare, in una catena infinita di atti di amore e di accoglienza, di perdono e di riconquista
(cf. E. Scognamiglio, Perché agli innocenti non è risparmiato tanto dolore? In www.sanfrancescopatronoditalia.it).

Gianmario Fogliazza
Coordinatore Centro studi La Pietra Scartata

 

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