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Emmaus, ultima tappa: “I progetti d’affido finiscono, ma quei ragazzi rimangono nostri speciali figli e, mi auguro, noi loro speciali genitori” (7)

Nel lungo cammino verso Emmaus sono emersi tanti parallelismi tra il racconto dei discepoli e quello delle famiglie adottive e affidatarie: “Comunque finisca un affido il dolore è profondo: hai dato tutto te stesso e ora? Cosa rimane? I figli vanno: ieri c’erano, da oggi non ci saranno più”


Siamo ormai giunti alla fine. Il cammino verso Emmaus ha insegnato tanto ed è stato fonte d’ispirazione per la spiritualità dell’accoglienza adottiva e affidataria. Seppur a tratti doloroso, ressta un grandioso esempio per tutti gli uomini.

Per chi se le fosse perse, qui sono disponibili tutte le tappe precedenti:

L’introduzione è disponibile QUI, il primo momento del Cammino è stato pubblicato QUI, la seconda tappa la si può leggere QUI, la terza tappa è disponibile QUI, la quarta tappa è disponibile QUI, la quinta tappa è disponibile QUI  e, infine, la sesta tappa è disponibile QUI.

 

Settima tappa

Dopo la pubblicazione delle riflessioni sul brano del vangelo di Luca (Lc 24,13-35) del Gruppo Famiglie della Regione Lombardia, concludiamo questo percorsoproponendo quelle dei coniugi Cristina e Paolo Pellini, svolte con particolare riferimento alla specifica esperienza dell’accoglienza in affido famigliare.

Guardare ai discepoli di Emmaus dall’esperienza di affido in famiglia  

Molto spesso, quando parlo alle famiglie dell’esperienza affidataria, sostengo che l’affido nella sua temporaneità ha anche un qualcosa che va oltre i limiti dettati dal tempo dell’accoglienza concreta. Questo è sempre stato un sentire che, in principio, non ha trovato una reale conferma nell’esperienza vissuta, se non nelle parole della mia mentore Ornella, mamma adottiva e affidataria: “non trascorre giorno in cui io non pensi a tutti i ragazzi che sono passati dalla mia casa, anche a quelli di cui non ho più notizie”.

 

Sento la necessità di comunicare alle famiglie la bellezza dell’accoglienza, ma non posso negare la fatica profonda del distacco anche contraddicendomi: l’affido temporaneo familiare è bellissimo, ma finisce con tristezza e ancora fatica! Per chi non lo ha vissuto, tale testimonianza appare abbastanza difficile da capire. Poi l’ascolto vero del Vangelo dei discepoli di Emmaus, un fatto reale e simbolico, concreto e spirituale. Ho scoperto nella riflessione che, nella mia storia personale, momenti in cui la mia esperienza può avere sfumature molto simili all’esperienza spirituale dei due discepoli di Emmaus e, credo, astraendo anche di molti altri genitori affidatari. Cercherò così di spiegare in cosa consiste la bellezza e la straordinarietà dell’essere genitori affidatari, pur ammettendo la fatica del lasciare andare i figli affidati: l’affido non finisce con il terminare del progetto, posso ora affermarlo con certezza avendo trovato risposta ad alcune domande.

 

Cleopa e l’amico camminano col volto triste, probabilmente delusi e scoraggiati (Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele – Lc 24,21) e incapaci di capire (Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti – Lc 24,22).

 

A cosa è servito? E ora cosa succederà? Cosa rimane? Cosa sta succedendo?

 

La fine di un accoglienza genera tutti questi sentimenti, questi dubbi e anche qualche paura. Comunque finisca un affido il dolore è profondo: hai dato tutto te stesso e ora? Cosa rimane? I figli vanno: ieri c’erano, da oggi non ci saranno più, non c’è ritorno, li rivedrò o forse no … Si riprende a camminare, a vivere la propria vita, ma non più come prima, qualcosa si è rotto o, perlomeno, qualcosa è cambiato. Inutile negare che forse, paradossalmente o per fortuna (perché segno di buona riuscita), questo è il momento più faticoso: hai dato tutto ciò che hai potuto a volte fino allo sfinimento, ti sei ripetuto ogni giorno “poi andrà via” per non farti troppo male, hai desiderato per quel tuo figlio e, forse, anche per te stesso che il momento della partenza arrivasse presto, ma il vuoto che genera è comunque immenso.

 

Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro (Lc 24,15).

 

Quanto parlare, anche inutile, quanto rileggere l’accaduto, verificare il proprio agito, quanto cercare consolazione al dolore e conferma del fatto che ciò che si è fatto è stato veramente un bene. Tutto inutile perchè il vuoto immenso rimane nonostante le tante parole. Come i discepoli, capisci di non capire ma dai voce al tuo dolore, sperando che si affievolisca.

 

Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo (Lc 24,16).

 

Gesù era diverso, il Risorto era irriconoscibile. Poi qualcuno decide che puoi rivedere quei tuoi figli “persi”; l’incontro è strano, anche imbarazzante, sembra che quanto rendeva normale lo stare insieme sia svanito. Nuovi visi, nuova immagine dell’altro. Qualcos’altro è cambiato, sembra che tutto debba ricominciare da capo con persone nuove, diverse. Una nuova storia deve cominciare, ma vogliamo ricominciare? Quella storia comune presenta una discontinuità che sembra lasciar presagire la fine della storia stessa: non sarà mai più come prima o, peggio, ci si è persi. Ancora una volta la speranza è messa alla prova, proprio noi genitori affidatari siamo messi alla prova! Noi che abbiamo fatto di tutto per far tornare a sperare quei bambini! Tutto ciò che attendavamo dal quell’incontro con quei nostri figli non lo troviamo, nuova delusione.

 

Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. (Lc 24,30-31)

 

Basta un gesto, un segno, per risvegliare il ricordo, gli occhi e il cuore dei discepoli si aprono nuovamente al Risorto. Basta un momento di spontaneità e tutto si ricompone: a cena, dopo un lungo periodo in cui non era permesso ritrovarsi nella casa in cui per un po’si è cresciuti insieme, nel modo più naturale del mondo tutti ci risiediamo nel posto che negli anni della vita comune erano i nostri. Improvvisamente si ricrea calore, spontaneità, vicinanza …

 

Ed ecco che quell’unità si ricompone, ma quasi più bella, più sincera, libera da vincoli. Si è tutti diversi, forse più veri. Ci si ritrova in un gesto che per anni ha unito; il condividere il cibo è forse anche segno di quel legame che ha nutrito la relazione e che, sorprendentemente, ancora la nutre. Solo in quel momento si capisce come la presenza degli accolti nella nostra vita non è venuta meno e lo si percepisce pur nell’assenza, nella nostalgia. E il dolore si affievolisce.

 

Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? (Lc 24,25-26)

 

Solo dopo aver provato questo legame che va oltre un patto d’affido, oltre al nero su bianco, posso capire che anche la sofferenza del distacco ha un senso: ilpatimento da parte di tutti ci è servito per riconoscere il cambiamento, per scoprire un legame forte tra noi che va oltre le contingenze, per scoprire che questo forte legame si è  consolidato lentamente, per piccoli passi, con le tante fatiche condivise, con la fiducia reciproca, nella speranza condivisa. La presenza nell’assenza la riconosciamo dai frutti che ha prodotto in noi. Allora le parole di Ornella acquistano senso, allora posso affermare con certezza e serenità che i progetti d’affido finiscono, ma quei ragazzi rimangono nostri speciali figli e, mi auguro, noi loro speciali genitori.

 

 



L’Associazione LA PIETRA SCARTATA da anni accompagna e supporta le famiglie nella vocazione a prendersi cura dei bambini abbandonati o temporaneamente allontanati dalla propria famiglia, conservando o restituendo loro la dignità di figli, mentre si rende testimonianza dell’Amore di Dio nell’accoglienza familiare affidataria o adottiva, secondo il carisma proprio del sacramento matrimoniale, vissuto nell’ambito fecondo delle relazioni coniugali.


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