Le riflessioni del Movimento Indipendente Liberi Lavoratori Dell’Educazione
Dopo che la pandemia ha posto in evidenza l’importanza e, nel contempo, la fragilità delle professionalità educative e pedagogiche, in prima linea nelle fasi più difficili dell’epidemia così come in quelle del post-lockdown, si andrà finalmente verso la definizione di un profilo unico di educatore professionale? Le istituzioni sapranno cogliere questa sfida e questa necessità? Del tema parla, in un recente articolo, il magazine Vita.it, che ha pubblicato le riflessioni di Andrea Rossi, Fabio Ruta e Fabio Sestu, rispettivamente presidente nazionale, vicepresidente e responsabile per la Regione Sardegna dell’associazione MILLE – Movimento Indipendente Liberi Lavoratori Dell’Educazione.
“Delle criticità collegate al dualismo dei profili – scrivono i tre co-autori – e della relativa proposta di profilo unico volta a superarle si è discusso in una recente diretta Facebook promossa dalla CGIL-Funzione Pubblica dal titolo ‘Educatori. Tra caos normativo e diritti negati’, iniziativa alla quale siamo intervenuti e che è ora visibile in streaming. In questa occasione la nostra associazione ha registrato, anzi ha avuto forte conferma, della convergenza con il principale sindacato di settore sull’esigenza di giungere presto ad una legge quadro sulle professioni educative che preveda finalmente la individuazione di un profilo unico di educatore. (…) Pretendiamo un profilo adeguato a rispondere alle domande di una società velocemente trasformata e che integri – in un nuovo corso accademico – il meglio dei percorsi esistenti e passati (pensiamo ad esempio anche alla esperienza delle vecchie scuole regionali interconnesse ai servizi territoriali), con un occhio particolare alle altre realtà europee”.
“L’individuazione di un nuovo profilo unico di educatore – spiegano ancora gli autori – vedrebbe automaticamente equipollenti senza oneri formativi gli attuali educatori professionali sociopedagogici e sociosanitari e risolverebbe in un solo colpo le problematiche dei lavoratori del settore sottoposti oggi ad un assurdo risiko sugli ambiti di lavoro, che sta generando accreditamenti differenziati a livello regionale. La Regione Veneto ad esempio con una recente delibera contestata da una lettera unitaria dei Mille di altre tre associazioni (APP, Conped, Uniped), mette a rischio la presenza degli educatori professionali sociopedagogici e dei pedagogisti in ambiti dove è prezioso il loro contributo (come, ad esempio, le comunità psichiatriche). Stessi problemi incontrano spesso gli educatori professionali sociosanitari sul versante scolastico e sociale: sebbene l’attuale normativa (seppur per molti versi confusa e contraddittoria) contempli la compresenza nei diversi ambiti dei due profili di educatore e la valorizzazione della figura del pedagogista, sovente ciò non accade nella realtà materiale dei servizi. Il mercato è stato forzato ad orientarsi su ambiti differenziati, anche sotto la influenza di informazioni inesatte e confusive circolate negli ultimi mesi, alle quali si è però allineato con colpevole superficialità. Un mercato che vede tutt’ora le professioni educative bistrattate, con condizioni salariali e contrattuali (ricordiamo che il livello formativo dell’EP è la laurea triennale e quello del pedagogista quello magistrale quinquennale) inadeguate: sottoposte a fenomeni inaccettabili come le notti passive, la cattiva gestione dei part-time misti, carichi di lavoro eccessivi, frequente carenza di supervisione e prevenzione del burnout”.
Educatori professionali: un profilo unico perché svolgono la medesima professione
Secondo gli autori del testo, educatori professionali socio-pedagogici e socio-sanitari svolgono da sempre la medesima professione. “Ai nostri occhi – spiegano – appare (…) evidente che l’introduzione di un albo professionale per uno solo dei due profili abbia forzato artificiosamente questa necessità di distinzione: forzatura che avviene non perché ci siano davvero differenze significative nella pratica professionale, ma perché è esigenza dell’albo stesso (e non della professione!) definire un ‘territorio operativo’ che sia esclusivo del profilo ordinistico. Siamo convinti che questo dualismo non trovi giustificazione nella realtà dei contesti di lavoro, dove la professione di educatore è unica ed è connotata da prassi comuni, caratterizzata da un ‘fare quotidiano’ che non registra reali differenze nei professionisti che provengono dai due distinti filoni formativi. Ciò appare in tutta la sua evidenza nei territori dove sono presenti entrambi i poli formativi: colleghi con formazioni differenti si confrontano ed arricchiscono a vicenda, co-costruiscono le pratiche operative e si riconoscono in un corpus comune con facilità, vien quasi da dire con naturalezza. Ma lo stesso processo avviene anche quando ci si apre senza pregiudizio a realtà diverse, dove la formazione di base avviene con netta prevalenza presso uno solo dei due poli (ricordiamo che in Italia ci sono 14 corsi SNT/2 e 50 corsi L19, con distribuzione disomogenea sul territorio nazionale): quando il confronto è sulle pratiche e non sulle letture aprioristiche, le distinzioni diventano in breve irrilevanti. Poiché la ‘competenza professionale’ non si esaurisce nel padroneggiare una determinata tecnica o nell’avere conoscenze specifiche in una determinata disciplina teorica, ma consiste fondamentalmente nel saper discernere, nella pratica, a quali contributi tecnici teorici o esperienziali attingere nelle singole situazioni. In questo senso, permangono differenze solo in merito a scelte operative, in conseguenza dell’orientamento teorico-pratico individuale e/o delle scuole di pensiero cui si fa riferimento, più che della formazione di base, così come – per fare un esempio banale – a fronte della stessa patologia si potrà trovare un medico che opta per un intervento chirurgico ed un altro che preferisce invece un approccio farmacologico conservativo, ma nessuno al mondo si sognerebbe di dire che quei due medici devono provenire da corsi universitari diversi. In ultima analisi, questa distinzione di competenze appare artificiosa e posticcia anche dal punto di vista epistemologico. Separare l’educativo dal riabilitativo appare una logica da ‘manuale Cencelli’ non supportata da un adeguato bagaglio teorico. Abbiamo in ambito accademico umanistico potuto apprezzare analisi teoriche sulla “diagnosi” e “cura” di taglio educativo. Nella stessa definizione declinata nell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) si esplicita come in fase preventiva e operativa riguardo ad una temporanea o consolidata “carenza di salute” oltre agli approcci di tipo sanitario e clinico, influenzino un ruolo non secondario fattori personali, ambientali, dunque sociali ed ambientali nel ‘riportare ad esso lo stato di salute’. Questo significa che aspetti socio educativi sono elementi condizionanti nel processo di restituzione dello stato di salute dell’individuo e questo non è sindacabile”.
“Difendiamo la presenza degli SNT2 – hanno scritto poi i tre autori – in ambito sociale e scolastico e ne proponiamo la estensione in ambito penitenziario. Allo stesso tempo ci opponiamo alla esclusione degli educatori professionali sociopedagogici dagli ambiti sociosanitari e sanitari. Ne difendiamo la presenza a pieno titolo e riteniamo che quel ‘limitatamente alle competenze socio educative’ non vada interpretato in funzione riduttiva e strumentale. Come sopra ricordavamo, funzioni abilitative e riabilitative sono implicite nella educazione. La stessa radice etimologica del termine riabilitare rimanda a una plurisignificanza di accezioni. Occorre superare di slancio queste criticità date dal dualismo dei filoni formativi e dei profili ed investire la politica del compito che le spetta: ovvero giungere finalmente ad una legge quadro organica di riordino sulle professioni educative. È necessario che si crei un percorso condiviso che porti a questo traguardo”.
Per quanto riguarda la formazione degli educatori, riporta l’articolo, oggi “appare consistere da una parte in una preparazione teorica umanistica scollegata dalla realtà dei servizi e dall’altra in un ipertecnicismo di stampo sanitario poco avvezzo alla riflessione critica: è evidente che ci troviamo di fronte a due formazioni monche. Né appare convincente l’ipotesi, più volte emersa, di ‘percorsi compensativi’ tra i due profili, poiché questi percorsi risulterebbero banalmente un ‘lasciapassare’ per il campo avverso, senza in realtà intaccare minimamente le debolezze dell’uno e dell’altro. E rimarrebbe irrisolta la questione dello specialista di secondo livello, che allo stato attuale esaspera le distanze e forma professionisti quasi incompatibili”.