Il lockdown alla rovescia dei 100mila Hikikomori: non escono mai dalla loro stanza, ma ora il Covid li attrae fuori casa

Con l’epidemia c’è in giro meno gente e le città sembrano meno ostili. Così si sentono più a loro agio e molti di loro decidono di interrompere solo “temporaneamente” il loro autoisolamento.

 Li chiamano Hikikomori, sono i ragazzi che hanno deciso di ritirarsi dal mondo e dal confronto diretto con la società. Vivono chiusi nella propria stanza. Escono raramente se non addirittura per niente. Vivono in solitudine. Le loro emozioni sono filtrate da uno schermo, quello del loro pc.

Un fenomeno che in Giappone esiste da più di 40 anni ma solo da poco se ne sente parlare anche qui da noi in Italia.

Si stima che nel nostro Paese siano più di 100.000, tra i 14 e i 30 anni, riporta l’ Osservatore Romano.  Sono principalmente ragazzi, per il 70 se non addirittura 90% ma si pensa che il numero delle ragazze sia sottostimato.

Si tratta di animi molto sensibili, intelligenti ma inibiti socialmente. “Hanno una visione particolarmente negativa della società – spiega Rosanna d’Onofrio psicologa e psicoterapeuta dell’Associazione Hikikomori Italia sul quotidiano – soffrono particolarmente le pressioni di realizzazione della società dalle quali cercano in tutti i modi di fuggire. Non è una malattia mentale. Anche se con l’isolamento prolungato possono insorgere disturbi patologici”.

Sembra un contro senso come in una società dichiaratamente della iper comunicazione, molti giovani scelgano di propria iniziativa “il ritiro sociale”.

All’origine vi possono essere molteplici fattori scatenanti, caratteriali, familiari, scolastici.

In Giappone il fenomeno è davvero molto diffuso. “Gli hikikomori, secondo il Koseisho (Ministero della Sanità e del Lavoro) avevano superato già nel 2018 il milione di persone  – scrive Avvenire – Ora, tra “attivi”, recidivi e “in procinto di” sembra siano raddoppiati.

Masamichi è uno di loro. È  rimasto chiuso in casa per quasi 5 anni, racconta il quotidiano. Usciva solo una volta alla settimana, per partecipare ad una riunione di comunità organizzata da un’associazione di volontari ma non vedeva l’ora di tornare nella sua stanza. “Stare fuori mi metteva paura  – rivela – entravo nel panico”.

Ma ecco qui la contraddizione che l’emergenza sanitaria con il suo conseguente isolamento collettivo ha portato con sè:

“Ora è diverso – continua Masamichi – in giro c’è meno gente, la città è meno ostile. Mi sento a mio agio”.  Così il giovane ha deciso di interrompere solo “temporaneamente” il suo autoisolamento e come lui sono molti gli Hikikomori ad aver seguito il suo esempio.

Ma come può un genitore aiutare un figlio che si trovi in questa condizione?

“Cercando di aggirare le barriere che il giovane ha eretto nei confronti del mondo sociale evitando qualsiasi tipo di forzatura e ponendosi come interlocutore umile, empatico e non giudicante – raccomanda Rosanna d’Onofrio sull’Osservatore Romano – Occorre soprattutto aspettare, la cosa più difficile. I genitori spingono per ottenere subito risultati che però rispecchiano i loro bisogni e non quelli dei figli”.

Insomma occorre armarsi di  pazienza, dialogo, comprensione e tanta  tanta empatia.