La casa-famiglia: una risposta immediata all’accoglienza di bambini da 0 a 6 anni

Dal 1° gennaio 2007 le uniche comunità in cui ogni bambino “temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo”, avrebbe avuto diritto di essere collocato, in assenza di affidatari, sono le “comunità di tipo familiare

 È fin troppo noto, ma troppo spesso dimenticato o tralasciato, che l’articolo 2 della legge n.184/1983 sull’affidamento temporaneo di minori è stato oggetto di una riforma importante nel 2001: con la legge 149/2001 è stato infatti stabilito che per tutti gli affidamenti familiari le soluzioni applicabili debbano essere le famiglie affidatarie, preferibilmente con figli minori, o le persone singole “in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno” oppure, in mancanza di queste soluzioni, la comunità di tipo familiare.

La novità del sistema, che avrebbe dovuto trovare applicazione obbligatoriamente, è dunque che dall’1 gennaio 2007 le uniche comunità in cui ogni bambino “temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo”, a prescindere dalla sua età, avrebbe avuto diritto di essere collocato in assenza di affidatari, sono le “comunità di tipo familiare” che lo stesso articolo 2 al comma 4 precisa trattarsi di quelle “caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia.“.

Un altro requisito è che si trattasse di strutture con sede “preferibilmente nel luogo più vicino a quello in cui stabilmente risiede il nucleo familiare di provenienza”.

Ora, mentre per gli anni dal 2001 al 2006 incluso – fase transitoria – erano ancora ammessi dalla legge, quali strutture deputate ad accogliere temporaneamente minori in situazioni di difficoltà familiari, anche un istituto di assistenza pubblico o privato“, a partire dal 2007 invece questa possibilità non avrebbe dovuto esserci più.

In altre parole, la legge 149/2001 consentiva che i minorenni di età superiore a sei anni, in mancanza di famiglie e di persone affidatarie disponibili e/o idonee, fossero collocati presso strutture non caratterizzare da rapporti familiari, specificando però già da allora: “Per i minori di età inferiore a sei anni l’inserimento può avvenire solo presso una comunità di tipo familiare.

Dal 2007 in poi l’accoglienza temporanea in strutture diverse dalle comunità di tipo familiare è da considerarsi perciò contra legem per tutti i minori di qualunque età.

Il problema è che la misura dell’affidamento temporaneo deve fare i conti non solo con le risorse reali presenti sul territorio, sia con riferimento alle famiglie e in generale alle persone affidatarie che con le strutture presenti, ma anche con le leggi locali che disciplinano i requisiti di funzionamento e gli standard delle varie strutture.

Ci troviamo così in un’Italia che ha nei diversi territori definizioni di strutture di accoglienza per minorenni con standard e criteri differenti e questa varietà di situazioni, insieme alla necessità di fare i conti con le risorse economiche che si accompagnano all’attuazione delle misure di affidamento temporaneo e che variano nei diversi enti locali, ha probabilmente tolto il focus dall’articolo 2 della legge 184/1983 che non prevedeva altra collocazione per tutti i minori in strutture diverse dalle comunità di tipo familiare.

Nell’ambito del Tavolo Nazionale Affido, di cui Ai.Bi fa parte, si è provato già da diverso tempo a riepilogare il quadro delle norme nazionali e regionali per tracciare una classificazione delle comunità familiari.

Come ben evidenziato nel lavoro di Marco Giordano: (https://www.tavolonazionaleaffido.it/files/10.-Marco-G.–ClassificazioneComunitaFamiliari-.pdf) solo in alcune regioni il concetto di “rapporti analoghi a quelli di una famiglia” è specificamente ricondotto alla presenza di una coppia di coniugi nei ruoli simbolici di padre e madre con chiaro riferimento alla Costituzione che riconosce i diritti della “famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (art.29).

A prescindere dal modello di famiglia che si supporti, resta fermo che quelle che le norme locali definiscono Comunità educative o di altro tipo ma che comunque siano prive di caratteristiche che le riconducano alle comunità familiari, non dovrebbero accogliere sicuramente minori di età zero-sei!

In questi anni invece, ci troviamo anche di fronte ad esempi come quello della Regione Piemonte che, con una delibera del 2019, in riforma del sistema precedente che impediva l’accoglienza di minori di età 0-6 nelle Comunità Educative Residenziali (CER) – che si differenziano in questa regione dalle comunità familiari e dalle case-famiglia – ha previsto che possano esservi accolti in pronta accoglienza anche se per un periodo che non può superare i 30 giorni. È evidente come decisioni di questo tipo si pogano in controtendenza rispetto al percorso che nel nostro Paese eravamo e saremmo ancora chiamati a compiere, dopo la legge 149/2001, verso la previsione sistematica di strutture che , con o senza personale specializzato in affiancamento, fossero tutte strutture familiari, essendo il dato imprescindibile dei “rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia” l’elemento da cui, a partire dall’anno 2007, non poteva né doveva essere sottratto, neppure temporaneamente, nessun bambino o ragazzo, e tantomeno i bambini di età da zero a sei anni.

Stando così le cose, in questa realtà che interrompe in qualche modo le aspirazioni di una legge voluta per precisi obiettivi e diritti da garantire, dove siamo diretti?

 Ufficio Diritti Ai.Bi.