A un anno dal primo lockdown i ragazzi sono ancora costretti alla DAD e a mediare ogni rapporto attraverso lo schermo di un computer. Un problema che porta all’apatia, alla perdita di qualsiasi spirito di reazione e i cui effetti si vedranno anche in futuro
Forse non è corretto dire che i ragazzi sono i “grandi dimenticati” di questa pandemia, perché, in fondo, quando si parla di scuola – e se ne parla… – si parla di loro. Però, sicuramente, si può affermare che “grandi dimenticati” sono gli effetti che questa pandemia sta avendo, e avrà a lungo termine, sui ragazzi.
Perché se fare o non fare la DAD è un problema politico e organizzativo, il capire cosa significhi per un ragazzo limitare i rapporti con compagni e professori a uno schermo è un problema di relazione e, a lungo andare, anche di tenuta psicologica.
Ascoltare i ragazzi per comprenderne i disagi
Il tema è stato molto ben sottolineato da Walter Veltroni in un articolo per il Corriere della Sera, in cui l’ex sindaco di Roma riporta di un suo incontro con alcuni ragazzi del liceo scientifico Primo Levi della capitale.
Un articolo nel quale Veltroni lascia intelligentemente la parola quasi solo a loro, riportando i pensieri che proprio i ragazzi hanno espresso durante l’incontro. Perché già quella del non venire ascoltati è una delle criticità che emergono, con i ragazzi che subiscono questo secondo lockdown senza avere la forza, e nemmeno la voglia, di reagire. Più di uno sottolinea come la prima chiusura del marzo scorso sia stata meno faticosa, vissuta come una parentesi anche un po’ diversa. Ora, invece, non solo non ci sono più i canti sui balconi e i lenzuoli con scritto “andrà tutto bene”, ma manca proprio la visione di una prospettiva. Prima il lockdown era sembrato l’eccezione, ora si è ripresentato come una normalità che, poco per volta, cancella il ricordo della vita di prima.
Tanti dei ragazzi citati da Veltroni lamentano proprio la perdita di quello che erano abituati a fare prima: dal vedersi prima di entrare in classe, all’allenare i bambini piccoli del nuoto… Oggi tutto è ridotto a computer, pranzi e cene con la famiglia, quando questa non è spezzettata in impegni di lavoro che, vissuto anch’esso a casa, fa saltare tutti gli orari.
L’apatia come conseguenza di relazioni interrotte
I ragazzi espongono sinceramente i loro dubbi e le paure, grati di avere trovato un momento per farlo e qualcuno disposto ad ascoltarli, ma è forse il discreto intervento di una professoressa a dare più di tutti la misura del disagio di oggi e, purtroppo, anche in prospettiva. “Anche nei pochi momenti in cui sono in classe – riporta Veltroni citando la professoressa – sembrano preferire l’uso del cellulare ai rapporti diretti con i compagni, ai quali sembrano ormai disabituati. È diminuita la partecipazione a qualsivoglia discussione, sono come in una bolla”.
Questo è il campanello di allarme peggiore: l’adagiarsi in una routine in cui domina l’apatia, in cui le ore si susseguono sempre uguali, senza una prospettiva di diversità che non sia il grido “è pronto” che arriva dalla cucina. Perché ai ragazzi manca sinceramente la dimensione sociale e “fisica”, ma purtroppo il mondo filtrato dallo schermo di un computer e rinchiuso nelle mura di una cameretta ha anche un subdolo potere anestetico che il ritorno alla normalità di prima non riuscirà a cancellare come un colpo di spugna.
È più che mai importante, allora, l’invito con il quale Walter Veltroni chiude il suo articolo, citando il bel libro di Antonio Tabucchi Sostiene Pereira: “Non c’è tempo da perdere”