Andrea: “Ci ho creduto moltissimo la cooperativa per me è stata ‘casa’. Ho sofferto nell’andarmene. Ma non tornerei più indietro”
Il settore dell’educazione e della cura sta vivendo un periodo di crisi senza precedenti. Ne abbiamo già più volte parlato. Le motivazioni sono molte: scarsa attenzione da parte delle istituzioni, retribuzioni inconsistenti, per lo svolgimento di un lavoro che è una vera e propria missione oltre che un servizio per la comunità.
Ma perché un educatore sceglie di gettare la spugna, di presentare le proprie dimissioni e cambiare lavoro?
Se ogni storia è diversa dalle altre, è pur vero che in ogni storia ritroviamo un po’ anche il significato profondo della scelta di tutti coloro che decidono, dopo averci veramente creduto, di rivolgere il proprio sguardo altrove.
Come Andrea, che lo scorso anno ha deciso di cambiare professione ed entrare a lavorare nella scuola, trasformandosi da educatore ad insegnante. A raccontare la sua storia è il web magazine VITA, ve ne riportiamo di seguito alcuni stralci.
“Ci ho creduto moltissimo – racconta Andrea- la cooperativa per me è stata ‘casa’. Ho sofferto nell’andarmene. Ma non tornerei più indietro”.
“Andrea a 24 anni, nel 2001, era entrato come socio lavoratore in una grande cooperativa sociale milanese, coinvolto da un amico. «Per le mie radici sono sempre stato interessato ai temi sociali, così mi sono buttato. In cooperativa ho trovato una realtà con un’idea molto forte della collettività e del prendersi cura degli altri, ho iniziato con l’ADM (assistenza domiciliare minori, ndr), ma anche supporti in comunità per minori e poi tanta disabilità».
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In vent’anni Andrea lavora in molti servizi, «direi tutti tranne il carcere». Qualche anno fa si iscrive anche all’Università, per avere la laurea: a 45 anni, “rubando” tempo alla famiglia, studiando la sera e nel weekend, conquista – in pieno lockdown – una laurea triennale in scienze dell’educazione. «Ho fatto questo grosso investimento per me, per dare un senso a tutto il mio percorso. Una volta iniziata l’università però mi sono reso conto che è stato anche un modo per rimettere in circolo energie che già da tempo sentivo di non avere più. Io non so se posso parlare di burnout perché non sono mai andato da uno specialista, ma quello che è certo è che dopo molti anni di lavoro, dopo essermi speso verso l’altro con una idea forte di vocazione e con tantissima passione, mi sono ritrovato molte volte con le “energie a zero” …».
Una fatica, racconta Andrea, dovuta anche al mancato riconoscimento di questa professione:
«Tendenzialmente noi educatori non siamo mai stati visti nell’importanza del nostro lavoro di cura, né dalla società né dalle istituzioni. Siamo stati a lungo dei fantasmi, forse qualcosa sta iniziando a cambiare ora. Basti pensare al fatto che anche a scuola ci fosse continuamente bisogno di spiegare alle persone con cui lavoravo quale fosse il mio ruolo e che differenza c’è tra un educatore e un insegnante di sostegno, oppure a quante volte i Comuni – con me presente – hanno detto alle famiglie che il mio ruolo con l’ADM era quello di “far fare i compiti”, come se si trattasse di ripetizioni private gratuite». L’altro tassello del discorso, inutile negarlo, è quello economico: «La mia cooperativa mi ha assunto subito e non ho mai avuto problemi di pagamenti, su questo niente da dire. Il fatto è che durante l’estate molti servizi chiudono e l’educatore che ha un contratto tempo indeterminato e che comunque deve fare le sue 38 ore settimanali al netto delle ferie va “in banca ore”: si crea un debito con la cooperativa che prima o poi deve essere restituito per non vedersi decurtare a un certo punto parte dello stipendio. Per me, per tantissimo tempo, questo ha voluto dire fare le mie 38 ore settimanali e poi nel weekend lavorare per “saldare” il debito delle ore non fatte durante l’estate. Di fatto significava lavorare senza avere mai uno stacco, al solo fine di riuscire a salvare i 1.200 euro di stipendio.
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Quello dell’educatore è un lavoro che richiede un’attenzione emotiva che alla lunga logora:
«Devi dare ad ogni persona il 100% del tuo supporto, di vicinanza, di presenza… Il lavoro educativo è molto sfibrante per la tensione emotiva, l’attenzione all’altro e ai suoi bisogni, la necessità di progettare le autonomie dell’altro. Tutto questo ti dà una responsabilità e un livello di preoccupazione elevatissimo. La parte fondamentale e sfibrante è riuscire ad entrare in contatto con l’utente e questo richiede uno sforzo e un’attenzione costanti, nelle ore in cui sei con un utente sei assolutamente immerso. Creare relazione è una delle cose più difficili che lavorativamente puoi fare, porta tanto stress. Arrivi a casa e a volte non hai più energia per il tuo compagno, per tua figlia, per la famiglia… Oggi io credo che non sia possibile lavorare più di 20/24 ore settimanali direttamente con l’utenza e il resto del tempo dovrebbe essere dedicata alla parte progettuale”.
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