Quando un figlio chiede ai genitori di giocare con lui, c’è chi aderisce con entusiasmo (anche eccessivo) e chi vorrebbe farne a meno. Il motivo, dicono gli esperti, è da ricercare nell’infanzia dei genitori stessi
È una delle domande che i genitori più temono di sentirsi fare dai figli e nello stesso tempo più cercano: “Giochi con me?”. È una domanda temuta perché, diciamolo, i giochi dei bambini, specie i più piccoli, faticano ad appassionare un adulto, per quanto ben disposto. Ma è anche cercata per via del continuo bisogno di rassicurazioni che anche da grandi si sperimenta, e sentirsi chiamare da un figlio per giocare insieme agisce sicuramente anche in questo senso.
Partire dall’infanzia dei genitori che non vogliono giocare con i figli
Quale che sia la predisposizione, alla domanda c’è chi risponde con entusiasmo e, anzi, a volte anticipa la stessa richiesta e chi, pur facendo fatica ad ammetterlo, preferirebbe ricevere un’improvvisa telefonata di lavoro così da avere una scusa per svicolare.
Non serve avere ritrosia nell’ammetterlo: tanti genitori non amano giocare con i propri figli e, se lo fanno, lo vivono come una sforzo.
Il motivo, dice la pedagogista Emily Mignanelli, fondatrice del centro di ricerca sostegno familiare Corallo, in un bell’articolo su D – la Repubblica, è da ricercare nel rapporto che a loro volta i genitori hanno avuto con gli adulti durante l’infanzia. Perché avere un figlio – sottolinea la Mignanelli – è come fare un corso di psicoterapia in cui si torna a essere bambini, e se molti adulti hanno negato la loro infanzia per adeguarsi al volere dei genitori che li volevano buoni, silenziosi e che non creassero problemi, ecco che, di fronte alla richiesta di loro figlio è come se si risvegliasse la minaccia “della perdita di amore subita da piccoli: sentono che quella parte che non gli è stata concessa al tempo, non se la possono concedere neanche ora”.
Né “sacrificio totale”, né eccessivo senso di colpa
A ciò si aggiunge il fatto che giocare con un bambino non è facile. Come ha sottolineato lo psicologo americano Peter Gray, quello che piace fare ai più piccoli, non piace anche ai grandi. Ma il gioco è anche negoziazione e, allora, cercare di trovare delle attività che piacciano a entrambi e nelle quali entrambi si divertano, è una buona strada da intraprendere.
Dall’altra parte, però, si rischia anche di finire all’eccesso opposto, ovvero al sentirsi obbligati a dire di sì al figlio in nome di quel “tempo di qualità” che tanti si ripetono come un mantra, finendosi per dimenticare che ciò non significa “sacrificio totale”.
Bisogna far pace con il fatto che si può anche dire di no, che si può, e si deve, lasciare al figlio quello spazio di autonomia necessario per farlo crescere, magari guardando da lontano che vada tutto bene e non ci siano pericoli. Perché sul fatto che i bambini debbano anche giocare da soli, tutti gli esperti concordano: è segno che hanno ricevuto una sicurezza stabile che permette loro di giocare in autonomia come in una sorta di autoterapia in cui non c’è alcun bisogno di aiuto.