L’uomo che getta il seme e il granello di senape sono le due immagini al centro della riflessione di Gesù narrata nel brano del Vangelo di Marco. Come ogni venerdì, proponiamo di seguito l’omelia di don Maurizio Chiodi, assistente spirituale nazionale di Amici dei Bambini e della comunità “La Pietra Scartata”.
PRIMA LETTURA Ez 17,22-24 Dal libro del profeta Ezechièle
Così dice il Signore Dio:
«Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami lo coglierò
e lo pianterò sopra un monte alto, imponente;
lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti
e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
Sapranno tutti gli alberi della foresta
che io sono il Signore,
che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso,
faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.
Io, il Signore, ho parlato e lo farò».
SECONDA LETTURA 2 Cor 5,6-10Dalla seconda lettera di s. Paolo apostolo ai Corìnzi
Fratelli, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore.
Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi.
Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.
VANGELO Mc 4,26-34 Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
Riprendiamo il tempo liturgico ordinario, con questa undicesima domenica ‘per annum’. E’ dal fiume della Pasqua, abbondante di grazia e di gioia, che scaturisce la nostra vita quotidiana e ordinaria, nell’ascolto continuo di una Parola di grazia e di speranza, che illumina i nostri passi.
Mi ha colpito, nella liturgia della Parola di questa domenica, una espressione della seconda lettura, che è tratta dalla seconda lettera di Paolo ai Corinzi.
L’apostolo sta invitando con forza alla fiducia nel Signore fintanto che «siamo in esilio», perché «lontano» da Lui. Perciò, benché lontani, dice Paolo, «ci sforziamo di essere a lui graditi».
E questo è bello: la fiducia richiede lo sforzo di piacere a Colui del quale ci fidiamo e che ci ha salvato.
Ma poi Paolo scrive: «Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male».
Queste parole sono molto forti. Facilmente possono essere male interpretate, come se alla fine della nostra vita ci aspetti un vero e proprio ‘tribunale’, in cui Cristo sarà il giudice e noi dovremo rendere conto a lui di tutte le opere, una ad una. “Non ne sfuggirà neppure una”, così pensiamo. Tutto sarà pesato, come su una grande bilancia, per vedere, alla fine, se sarà più pesante il piatto del bene o il piatto del male.
Ci sono, in effetti, molti affreschi, soprattutto nel Medioevo e fino alle soglie dell’epoca moderna, che rappresentano Cristo giudice, Signore dell’universo, e vicino a lui l’arcangelo Michele, con una grande bilancia, che pesa le anime dei defunti e le invia tra le fiamme dell’inferno oppure nella gloria dei beati.
C’è del vero in tutto questo.
Queste rappresentazioni artistiche e le parole della Scrittura che le hanno ispirate, come la seconda lettura di oggi, ci ricordano una verità di fondo, che non dobbiamo mai dimenticare: la nostra libertà!
Noi siamo responsabili delle nostre opere, del nostro agire, perché siamo liberi, e nella misura in cui siamo liberi.
Noi non trasciniamo in tribunale un animale, un cane o un lupo, se hanno fatto dei disastri azzannando un bambino oppure un leone se divora un uomo. Ci difendiamo da queste aggressioni, per evitare che si ripetano, ma gli animali non sono responsabili del ‘male’ compiuto.
Non sono responsabili: non sanno rispondere, appunto perché non sono liberi!
Non sanno decidere di sé, come invece sappiamo fare noi uomini.
Noi giustamente, ci indigniamo contro un politico che si è arricchito alle nostre spalle, rubando i soldi di tutti, così come ci arrabbiamo contro un assassino che uccide, per un motivo o per l’altro.
A un uomo, a una donna, perfino a un bambino, nella misura delle sue capacità, noi chiediamo conto del male compiuto.
E così dovremmo anche ringraziare per il bene. Ma questo non lo facciamo così volentieri ed è molto più raro. Chissà perché ci indigniamo facilmente per il male e non siamo altrettanto riconoscenti per il bene.
Questo non è bene! Non è bene vedere il male e non saper riconoscere il bene e quindi ringraziare.
Ecco, questa libertà – responsabilità che ci caratterizza nei rapporti umani, ci segna anche nel nostro rapporto con Dio.
Per questo Paolo dice che noi dovremo rispondere per le opere da noi compiute, nel bene e nel male e usa l’immagine del tribunale.
Per questo molti di noi, specialmente le persone più anziane, pensano alla giustizia divina, come a un vero e proprio tribunale, nel quale – però – diversamente dai tribunali umani, non solo saremo giudicati equamente, ma non potremo nemmeno nascondere nulla, proprio nulla.
Così, inevitabilmente, ci prende la paura, lo sconforto, l’angoscia magari la disperazione. Molte persone vivono con questa paura e con questo rimorso: “un giorno dovrò rispondere di quel male, di quella decisione, e non avrò scampo”.
Che cosa c’è che non va in questa ‘immagine’ del ‘tribunale’? Che cosa non va in questa idea di ‘giustizia’, tanto umana, troppo umana?
Questa giustizia è senza speranza. E’ senza fede. E’ una giustizia che non fa i conti con la grazia del Vangelo e con la fede/fiducia che ne scaturisce.
Ascoltiamo bene il Vangelo di Marco, che abbiamo proclamato.
Gesù ci ha proposto due immagini per dire il regno di Dio e cioè il modo di agire di Dio nei nostri confronti.
La prima immagine è quella di «un uomo che getta il seme» e l’altra immagine è quella del «granello di senape … il più piccolo di tutti i semi che però quando cresce «diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Un’immagine, questa, che Gesù riprende dalla natura e anche – l’abbiamo sentito nella prima lettura! – dalla parola di Ezechiele.
La metafora del granello di senape, annuncia una sproporzione: il regno di Dio, la sua opera graziosa tra gli uomini, che è Gesù stesso, all’inizio ci appare piccola, quasi insignificante, inefficace.
Eppure … la parabola di Gesù ci apre ad uno sguardo che va più lontano, che non si ferma all’immediato e che si apre alla sovrabbondanza dell’agire di Dio. Alla fine, questo ‘seme’ diventa un albero ospitale per tutti gli uccelli del cielo, che possono trovare in esso ombra, ristoro, riposo.
E’ un’immagine molto bella e consolante.
Dio opera nella storia della nostra vita, dall’inizio, in un modo che ci appare impercettibile.
Così è anche nella storia del mondo.
Ma non dobbiamo necessariamente pensare ad una crescita graduale. Ci possono essere, nella storia, nostra e dell’umanità, passi avanti e poi passi indietro, corsi e ricorsi.
Non è stato così anche nella storia di Gesù? Dopo un successo iniziale, la sua predicazione non è andata incontro all’insuccesso radicale, fino alla croce?
E perché non può essere così per noi?
Insomma questa prima parabola ci insegna a non perdere la speranza. Mai!
Allora, non la paura, ma la speranza ci deve sempre accompagnare nella responsabilità della nostra libertà.
Anche l’altra bellissima parabola rafforza, insieme alla speranza, soprattutto la fiducia.
Gesù dice che quando il seme viene gettato nel terreno, da un contadino, questo seme cresce da solo. Spontaneamente.
Nemmeno il contadino «sa» come questo seme possa germogliare e crescere: «Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce».
Che cosa ci dice questa immagine se non che Dio opera in noi e con noi per grazia?
La piccola parabola del seme è uno straordinario concentrato di Vangelo: è Dio che opera, è Dio che salva, è Dio che perdona.
Dio non ci ‘giudica’ se non dopo averci salvato, graziato, liberato.
Egli si attende, questo sì, che noi non mortifichiamo la grazia del perdono ricevuto, ma fino all’ultimo istante della nostra vita questo perdono rimane disponibile per noi.
Questa fiducia ci rende persone, discepoli, capaci di sperare. Sulla ‘bilancia’ della nostra vita, insieme alla nostra libertà, c’è la grazia del perdono, fino all’ultimo.
Siamo responsabili della grazia e dell’amore ricevuto, che è più forte e più grande di ogni nostra colpa.
Perciò, tutti, invochiamo il perdono di Dio e viviamo nella speranza!