Casa-Famiglia: per tanto amore serve una legge

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Pubblichiamo di seguito un articolo apparso il 3 marzo sul settimanale “Gente”, a firma della giornalista Alessandra Gavazzi, realizzato in seguito alla visita presso una casa-famiglia di Amici dei Bambini.

Scarponicini e polacchino. Ballerine  e stivaletti di pioggia. In tutto nove paia di calzature ben allineate fuori dalla porta d’ingresso, alcune piccolissime, altre quasi da adulto. Per l’ultimo arrivato non c’è bisogno di altro spazio nella scarpiera perché ha solo sette mesi e al massimo per lui servono le calzine, niente di più.  Cristina lo tiene in braccio e sorride, proprio come una mamma. E lei,  mamma lo è davvero. Con Tommaso ha avuto 5 figli. Solo i due più piccoli, Marco e Matteo, due discoli di 8 anni, vivono ancora con loro. Gli altri otto bambini, quelli che in queste pagine abbiamo ritratto alle spalle per proteggerne la privacy, sono ospiti affidate alle loro cure dal Tribunale per i minorenni.

Perché il grande appartamento di Cristina e Tommaso, in provincia di Milano, da tre anni è diventato una delle case-famiglie gestite dalla Onlus Ai.Bi. Amici dei Bambini. Una delle 2.766 strutture esistenti in Italia alle quali è affidata circa la metà dei 29.388 minorenni sottratti dai servizi sociali alle famiglie d’origine, almeno secondo un rapporto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 2010. Dati non proprio freschi, per usare un eufemismo.

Dati che hanno comunque destato l’allarme della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza: “Non esiste monitoraggio sulle strutture, le cifre che le riguardano sono lacunose e approssimative e per alcune Regioni mancano del tutto” spiega Michela Vittoria Brambilla, presidente della Commissione “E’ difficile solo fare un censimento delle strutture, ed è ancora più complesso valutarne la qualità e controllare che tutti i requisiti siano rispettati per il bene del bambino.” Un bimbo che già vive una grande situazione di difficoltà e che, secondo le statistiche, nel 60% dei casi è destinato a rimanere lontano dalla famiglia d’origine per oltre due anni.

“Il rischio” continua la Brambilla “è che in assenza di informazioni il minore passi dalla condizione di allontanato a quella di abbandonato”. Adesso per i minori che vengono tolti alle famiglie, le soluzioni sono essenzialmente due: l’affido familiare, per cui il piccolo viene momentaneamente a vivere con due genitori affidatari, e le strutture d’accoglienza. L’obiettivo è istituire un Osservatorio Nazionale con un sistema di verifica degli standard igienico-sanitari e delle condizioni in cui vivono i ragazzi. Con la possibilità, ove ce ne fosse bisogno, di intervenire anche in collaborazione con le forze dell’ordine “Allontanare un bambino dalla famiglia deve essere un passo estremo: è la certificazione della resa dello Stato che non ha saputo aiutare quella famiglia a rimanere unita”, continua la Brambilla.

E la mente corre ad alcuni recenti episodi di cronaca, uno su tutti quello di Maria, 4 anni, sottratta all’asilo Pippi di Rapallo alle cure di una madre che gli assistenti sociali avevano definito come poco propensa a cercarsi un lavoro e affidata a una struttura protetta. A distanza di due mesi la piccola è ancora in comunità, ma ha ricominciato a rivedere la mamma. “Gli assistenti sociali fanno un lavoro di frontiera” ammonisce Mara Tognetti, sociologa docente di servizio sociale all’Università di Milano-Bicocca e coordinatrice della Conferenza Nazionale dei Presidenti dei corsi di servizio sociale “Spesso rischiano in prima persona perché svolgono una funzione pubblica, rappresentano la “mano” concreta di quello Stato che non risponde ai bisogni delle famiglie in difficoltà”. Si sentono sotto attacco, gli assistenti sociali. Non parlate di allontanamenti “facili”, per favore. Dietro a questa scelta c’è un’approfondita analisi sulla situazione familiare, perché è chiaro che si tratta di una scelta pesante per il minore, per i suoi genitori e anche per l’operatore sociale che sopporta un carico emotivo difficile”.

Ogni caso, insomma, viene valutato senza automatismi. Ma è proprio in questa assenza di meccanismi e criteri che, a volte, si annida il rischio di un abuso. Perché ogni Regione ha una propria disciplina anche in merito ai fondi. E poi i singoli comuni fanno la parte del leone, gestendo autorizzazioni per le nuove strutture, controlli per quelle già esistenti e progetti educativi ad hoc per i minori seguiti dai servizi sociali. “La discrezionalità totale fa però sì che non esistano linee guida che regolino l’affidamento e siano valide per tutti” riprende l’onorevole Brambilla. E punta il dito anche sui rimborsi alle strutture “In alcune zone ci si regola con tariffe giornaliere che arrivano anche a 100 euro per minore, in altre si va a forfait mensili di 400 euro. Sono soldi pubblici, siamo sicuri che siano spesi al meglio? O forse, supportando con quei fondi le famiglie d’origine, le aiuteremmo a tenersi i figli?”.

Cristina e Tommaso, dall’alto della loro esperienza prima come genitori affidatari e poi come mamma e papà di casa-famiglia, dubbi non ne hanno “Noi siamo volontari  e la nostra è una scelta di vita. Ai.Bi provvede alle spese, ci sostiene con educatori che a turno ci aiutano nell’organizzazione quotidiana e nel progetto educativo dei singoli ragazzi. La nostra vittoria più bella è quando i più piccoli riescono a rientrare definitivamente nelle famiglie d’origine. Ai più, invece, insegnamo ad essere autonomi perché riescano a cavarsela una volta compiuta la maggiore età”. Molti, usciti dal loro “nido temporaneo”, tornano a trovarli. “Vengono a pranzo con le fidanzata. Oppure anche solo a confidarsi se hanno problemi di cuore o di lavoro, proprio come accade con i nostri tre ragazzi più grandi, che oramai vivono fuori casa. Anche se “a tempo”, tutti loro sono figli nostri”.