“Rischio la morte perché voglio far nascere mio figlio dove non c’è la guerra!”

mammabambino200Chi paga meno finisce nella stiva, viaggia in condizioni terribili e rischia di più. I migranti lo sanno, ma non per questo rinunciano a imbarcarsi alla volta dell’Europa. In fondo il viaggio è breve e nessuno vuole tornare indietro.

In questo, le storie di chi fugge dalla guerra e dalla miseria nel tentativo di raggiungere una vita migliore si somigliano tutte. L’aver visto più volte la morte in faccia, nel corso dei loro viaggi della disperazione, accomuna tutti i 43mila migranti che da gennaio ad aprile 2014 sono approdati sulle coste europee. Solo in Italia, secondo i dati diffusi in questi giorni da Frontex, l’agenzia europea per la gestione delle frontiere, nei primi 4 mesi dell’anno sono sbarcate più di 26mila persone, con un incremento dell’823% rispetto al 2013.

Tutti loro sanno che dovranno sfidare la morte. Un prezzo che, ai loro occhi, è accettabile rispetto a ciò da cui fuggono.

In primis, ci sono i siriani: il loro Paese è sempre più ridotto a un cumulo di macerie dopo 3 anni di guerra civile e un’intera generazione di bambini rischia di scomparire. Per questo, i genitori che ne hanno la possibilità cercano di fare crescere i loro figli all’estero. Lo dimostra la commovente storia di una ragazza sopravvissuta al tragico affondamento di un barcone al largo delle coste libiche, lunedì 12 maggio. Ha affrontato la traversata pur essendo al nono mese di gravidanza, viaggiando da sola, attraverso 5 Paesi. Ha superato le alture siriane, ha raggiunto la Turchia e da lì, in aereo, Il Cairo. Poi il deserto a bordo di un camion e altri mezzi di fortuna per giungere in Libia e quindi imbarcarsi per l’Italia. Ha rischiato tutto, anche di far nascere il suo bambino sul rimorchio di un camion o su una carretta del mare. “Voglio andare in Germania – annuncia – perché voglio far nascere mio figlio in un Paese dove non c’è la guerra”.

Poi ci sono gli eritrei, che fuggono da una sorta di Stato-caserma che precetta uomini per la leva a vita. I disertori si contano a migliaia, tanto che i generali considerano ormai più redditizio darsi al traffico di uomini che svolgere il proprio lavoro. Meros ha 20 anni e per sfuggire a quell’inferno ha pagato mille dollari in anticipo ai trafficanti per attraversare il Canale di Sicilia insieme ad altre 300 persone. E sa che altri 400 connazionali si imbarcheranno a breve.

“Siamo arrivati alla spicciolata dall’Eritrea e dai campi profughi dell’Etiopia – racconta –. C’è chi è stato arrestato e ha subito ogni genere di torture dai libici per convincere le famiglie a pagare il riscatto e liberarli, chi ha lavorato come schiavo per pagarsi il viaggio, chi è arrivato corrompendo le guardie di frontiera”. Altri invece sono stati abbandonati nel deserto perché non avevano denaro o sono stati catturati nel corso di una retata effettuata in territorio sudanese. Deportati nel loro Paese di origine sono destinati a una dura prigionia o alla fucilazione.

Ci sono anche gli egiziani, i sudanesi e i sub sahariani, molti dei quali minori, che scappano dalla miseria accettando di rimanere anche per 5 giorni nella stiva di un peschereccio, alimentati solo con tonno in scatola, pane, datteri e acqua melmosa.

Una spirale di disperazione che non accetta ad attenuarsi. “E’ facile prevedere – afferma Gil Arias Fernandez, vicedirettore di Frontex – che in estate, quando migliorerà la situazione del mare, aumenteranno ancora gli arrivi e dunque, purtroppo, anche le tragedie”.

 

Fonti: (Corriere della Sera, Avvenire)