Usa: in Arizona minori stipati come animali in recinti di filo spinato

imagesIn una gabbia. Come un animale feroce e pericoloso. Guardato a vista come un temibile criminale con alle spalle omicidi e stragi. Invece è solo un bambino, di pochi anni. Cinque o sei al massimo (rari i casi di adolescenti), “colpevole” di cercare una nuova vita superando quella frontiera dopo la quale c’è un mondo nuovo, la speranza di una normalità negata. Molti sono ancora coperti dal fango del Rio Grande o dalla sabbia del deserto di Sonora, sdraiati uno accanto all’altro su materassini di plastica buttati per terra in gabbie come  recinti da fiera del bestiame. Fissano i muri di cinta o le televisioni, e nei loro occhi c’è noia, stanchezza, rassegnazione. Sanno che non possono parlare ai visitatori, e non ci provano nemmeno. Solo i più piccoli rispondono timidamente ai sorrisi. E’ quello che succede al “Centro di smistamento immigrati di Nogales” (in Arizona), solo uno dei tanti in cui vengono portati in vera e propria detenzione i bambini. Vengono dal Messico, Guatemala, San Salvador e dalle Honduras: divisi per età e sesso da sbarre di ferro alte quasi 5 metri, sormontate da filo spinato, aspettano di essere processati per immigrazione clandestina. Questo il “premio” dopo aver viaggiato settimane per poi ritrovarsi da soli alla frontiera tra il Messico e il Texas, dove vengono prelevati dalla polizia e spediti in un centro di detenzione. Da ottobre sono oltre 47.000 i bambini non accompagnati che hanno attraversato il confine e le associazioni di diritti umani accusano Washington di non aver fatto abbastanza. I bambini sono distribuiti in una dozzina di gabbie etichettate con la descrizione del loro “contenuto”: «Maschi sotto i 12 anni», «femmine dai 12 ai 15 anni». Una fila di latrine portatili e un tendone di plastica blu isolano un gruppo dagli altri: sono gli immigrati con la scabbia. L’aria condizionata che ronza da cinque gigantesche bocche d’acciaio puzza di piedi, di urina e di sudore. Qua è là si vede qualche frisbee, delle palle, un peluche. Ma sono comunque bambini soliBambini in gabbia. Che, essendo in un centro di detenzione, non possono avere lacci alle scarpe o uscire in cortile più di tre volte alla settimana.
Sono arrivati al confine meridionale dell’Arizona o del Texas dopo almeno tre, quattro settimane di cammino attraverso il centro America e il Messico. Raccontano di essere saliti sul tetto della “bestia”, il treno che attraversa il Messico da Sud a Nord, di aver dormito per strada, di aver camminato per ore nel deserto e di essere stati assaltati dalla «mafia», come la chiamano: narcotrafficanti e bande di delinquenti comuni che sanno che questi piccoli disperati hanno addosso tutti i soldi che la loro famiglia è riuscita a racimolare prima di spedirli in un viaggio della speranza e dell’orrore. E poi ci sono quelli che le guardie trovano morti nel deserto: uno o due cadaveri al giorno, di tutte le età (sono stati 463 nel 2013 ma sono aumentati negli ultimi mesi). Tutti riceveranno l’ordine di presentarsi in tribunale per chiedere la revoca del provvedimento di espulsione che, se non si presentano, scatta automaticamente. Allora cominciano una vita sotterranea. Gli adolescenti troveranno un lavoro a lavare piatti, scaricare casse nei magazzini di notte, pulire le stanze dei motel di periferia, pagati meno del salario minimo. Il loro futuro resta incerto e le cicatrici del viaggio sono profonde. Cosa diresti se tuo figlio fosse detenuto soltanto perché straniero? Per di più richiedente asilo e da tutelare secondo più convenzioni?