Tra i soldati feriti di Kiev: “Sbattuto a est a combattere: a casa mi aspettano due bimbi di 2 e 8 anni”

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Terza parte del reportage del free lance Matthias Canapini che, dopo aver incontrato gli sfollati, ora si trova ad ascoltare i racconti dei soldati ucraini feriti ricoverati nell’ospedale militare di Kiev: storie di famiglie distrutte, di bambini che aspettano il ritorno a casa dei loro genitori che, in tanti casi, non torneranno mai. 

 

Raggiungo Masha in ufficio e inizio nuovamente a porle domande, per capire e approfondire ulteriori contesti. Chiedo ad esempio se c’è la totale partecipazione da parte dei cittadini ucraini oppure se molti si disinteressano o evitano di vedere il pericolo attuale. “Nessuno è indifferente – mi dice Masha –. La guerra ormai ci ha raggiunto dentro casa, pur vivendo a 600 chilometri dagli scontri. Ci ha raggiunto perché un gran numero di famiglie ucraine ha almeno un figlio maschio che è stato chiamato alle armi pochi mesi fa. Chiunque ha fatto il servizio militare viene buttato nelle zone calde a Est. Molti stanno tornando a casa avvolti in bare di legno.. Pensa che a volte sono i famigliari a comprare i  giubbotti antiproiettile ai propri figli: carne da macello, nient’altro. Non hanno nemmeno l’equipaggiamento adatto per combattere. Però ci sono molti ragazzi che hanno scelto di arruolarsi volontariamente per difendere la propria terra”. Questa sfera umana mi interessa molto e chiedo a Masha se sia possibile incontrare i soldati feriti di ritorno dal fronte, per scambiarci due parole e sentire anche la loro testimonianza. Circa 2 ore e 3 chiamate dopo, siamo diretti all’ospedale militare di Kiev!

 

Un gran via vai di barelle, dottori, soldati di guardia, feriti, bellissime infermiere dagli occhi azzurri e cellulari che squillano. I famigliari che vanno a trovare i loro cari incerottati, feriti o mutilati, senza una gamba o un braccio. Tanti volontari che portano ogni giorno aiuto come medicinali, cibo, bevande fino a riempire letteralmente i magazzini dell’ospedale. Provo un gran senso di unione e fratellanza vedendo tutto ciò. Piccoli gesti che trasmettono affetto e contatto umano.

 

Saliamo al quarto piano dell’edificio. Con una mano sulla stampella e l’altra sul corrimano sta scendendo in quel momento un soldato rimasto gravemente ferito. Avrà sì e no 20 anni, come la maggior parte di quelli che vedremo camminare nei dintorni dell’area. Ragazzi di un’età compresa tra i 18 ed i 25 anni. Chiediamo di parlare con un soldato ferito. Ci viene incontro la moglie. Lei è Lilia, il marito si chiama Fedir. “Mio marito ha 39 anni. Intorno a metà marzo è arrivato l’avviso a casa con cui richiamano i militari al fronte. Se ti opponi alla norma rischi dai 3 ai 5 anni di carcere. Il 23 marzo è partito e l’11 luglio è rimasto ferito. Sono stati circondati dall’artiglieria pesante e Fedir non ha fatto in tempo a raggiungere la trincea e si è riparato sotto un carro armato. Il ragazzo di fianco a lui, di 19 anni soltanto, è morto sul colpo mentre mio marito ha riportato gravissime ferite. Ora le ferite sono ancora fresche, è stato operato anche ieri pomeriggio e non riesce a camminare. Spero che si riprenda del tutto”. Osservo quel caschetto nero e quegli occhi azzurri di fronte a me, intravedendo per un attimo tutto il dolore che possono racchiudere. “Fedir mi ha anche raccontato delle condizioni terribili in cui vivevano al fronte. Erano costretti a dividere la porzione di 1 giorno e farla durare almeno per 4. Bevevano per lo più acqua piovana e non avevano tende adeguate per dormire o per ripararsi dai temporali. Spero che tutto si risolva presto, abbiamo due bambini di 8 e 2 anni che ci aspettano a casa”.

 

Percorriamo corridoi silenziosi e vuoti. Il rumore dei passi riecheggia tra le pareti in cemento. Numerosi disegni fatti da bambini coprono le  pareti in legno. Raffigurano colombe bianche, arcobaleni, fiori ma anche armi e soldati in mimetica. Sensazioni, emozioni, stati d’animo si inseguono tra loro, non trovo parole per descrivere tutto ciò, se non ripercorrere le testimonianze e dar voce alle persone incontrate. Saluto Masha al bivio tra un fast food e un ampio negozio di vestiti, supero due incroci e mi perdo in ciò che rimane della celebre piazza Maidan, luogo di scontri e pesanti manifestazioni avvenute in febbraio. Mi avventuro tra le poche barricate rimaste. Un luogo simbolo diventato quasi un monumento dimenticato. Caschi, scudi e armi usate nella rivolta di febbraio marciscono tra la ruggine, sotto il sole cocente o la pioggia scrosciante. Alcuni agglomerati di tende sono diventati alloggi o mense dove i senzatetto possono riposarsi e rifocillarsi. Nella parte nord della piazza stanno cominciando a smantellare e portare via i basamenti delle barricate. Mi allontano lentamente con un suono struggente di tromba come sottofondo.