La tua casa è qui

affidoRiportiamo di seguito l’articolo pubblicato da “D La repubblica”, settimanale de La Repubblica, in data 13 dicembre 2014 a firma di Elisabetta Ambrosi.

“C’è un bambino per voi, venite”. E’ luglio quando Serena, una ex impiegata di 39 anni, riceve, con sorpresa, la telefonata degli assistenti sociali dell’ associazione Ai.Bi. (Amici dei Bambini). Aveva dato la sua disponibilità, insieme al marito Fabrizio, proprietario di una concessionaria di auto in società, a prendere un bambino in affido, ma era passato parecchio tempo e non si aspettava quella telefonata agli inizi dell’estate. “Francesco aveva solo 35 giorni”, racconta Serena, “sua madre lo aveva lasciato in ospedale, anche se tornava a trovarlo. Abbiamo ritirato fuori biberon, passeggino, culla e ricominciato a svegliarci di notte, ma questa volta tutti i miei figli – ne ho quattro, dai sette ai dodici anni – mi hanno aiutato. E’ stata un’ estate molto bella: quando Francesco è andato via, accolto dalla sua nuova famiglia adottiva, eravamo tutti un po’ tristi . Ma l’ affido non è un’ adozione”.

Che l ‘ affido non sia un’ adozione è la prima cosa che i genitori affidatari dicono quando chiedi loro di raccontare la loro esperienza. Perché questo strumento, ancora troppo poco conosciuto, è qualcosa di diverso: si fa un pezzo di cammino insieme a un bambino di una famiglia che non è in grado momentaneamente di prendersi cura di lui, fino a che la sua situazione familiare migliora. Poi il bambino ritorna a casa, anche se si può continuare a vederlo (e anzi alcuni comuni, come per esempio quello di Roma, hanno messo nero su bianco il diritto degli ex genitori affidatari di mantenere un rapporto con i bambini).

Nella realtà le cose non funzionano così, perché spesso le famiglie d’ origine hanno gravi problemi che gli assistenti sociali di enti locali con scarse risorse non riescono a risolvere . Quindi succede, in un caso su due, che gli affidi diventino sine die, arrivando a durare in casi estremi anche dieci anni. Ed è in questi giorni in discussione un cambiamento della legge per consentire ai genitori affidatari per lunghi periodi di candidarsi con titolo preferenziale all’ adozione. Ma per i genitori affidatari è fondamentale ricordare che questi bambini hanno almeno una madre o un padre, con cui non sempre i rapporti sono facili. “Bisogna assolutamente evitare giudizi sulla famiglia di origine e valorizzare invece gli aspetti positivi”, spiega Cristina, un’ ex infermiera di 40 anni. Cristina ha fatto un passo ulteriore e, da genitore affidatario, insieme al marito ispettore di polizia ha deciso di diventare una casa famiglia , una sorta di via intermedia tra comunità e famiglia con tutti i vantaggi, per i bambini, di entrambe. Oggi a casa sua, dove in questi anni sono passati oltre venti bambini – cingalesi, senegalesi, marocchini, cinesi – ci sono sette minori, oltre ai suoi gemelli di otto anni (Cristina ha anche tre figli grandi).

“Dove li ho messi tutti? Via il salone, oggi abbiamo solo una grande cucina e quattro camere da letto. Il pomeriggio vengono due educatrici ad aiutarmi e restano fino a quando hanno messo a letto i più piccoli“. L’ affido, però, non è solo per tribù numerose. Anche se assistenti sociali e psicologi sono rassicurati da famiglie che hanno già figli propri , ci sono sempre più famiglie senza figli, o genitori single: perché l ‘ affido , per fortuna, non ha criteri stringenti come l’ adozione. “Non abbiamo figli, eppure Filippo è qui che gioca con noi”, racconta al telefono Simone, 40 anni, geometra. Insieme alla moglie Barbara, impiegata in una struttura sociale, dopo aver seguito il corso con il servizio affidi di Roma Capitale, ha preso in affido un bimbo italocinese di quattro anni, con la mamma in Cina e un padre sempre in viaggio. “Eravamo una coppia felice, ma è vero, ci mancava qualcosa. Siamo stati fortunati ad avere Andrea: ora passo i pomeriggi a giocare con lui”, aggiunge Barbara.

Per certi versi l’ affido è la quadratura del cerchio: da un lato consente a famiglie in difficoltà di avere un sostegno senza perdere la responsabilità genitoriale (che viene sospesa per gli affidi giudiziari, quelli cioè dove non c’ è il consenso della famiglia di origine, mentre resta per quelli consensuali, dove le famiglie si accordano con la mediazione di associazioni e comuni); dall’ altro permette a famiglie con una vocazione genitoriale forte, oppure anche a coppie che non hanno figli o ne hanno uno solo, di entrare in contatto con altri bambini ricevendo – oltre a permessi e congedi di maternità e paternità identici a quelli cui si ha diritto con un figlio proprio – anche un contributo per le spese sostenute, che va dai 300 ai 500 euro a mese (anche se spesso i soldi arrivano a singhiozzo a causa della burocrazia e degli scarsi stanziamenti).

“Non volevo che mio figlio crescesse unico, e desideravo che entrasse in contatto con una dimensione in cui esiste anche il dolore”, racconta Francesca, 52 anni, storica dell’ arte. Francesca ha avuto quattro bambini in affido, poi rientrati in famiglia o andati in adozione (un ragazzo è ancora a casa). Ed è proprio lei , che sostiene che  “l’ affido è la cosa più bella del mondo”, a spiegare le difficoltà a cui si va incontro quando si sceglie questa esperienza. “Ci vuole un grande lavoro su se stessi, bisogna saper vivere la famiglia in un altro modo, anche se in fondo nessun figlio è “nostro”. Ma la cosa più difficile è dare a questi bambini un messaggio sul loro diritto a non essere maltrattati, a studiare, ad avere una vita sana, perché hanno un enorme senso di svalutazione di sé”. “Dopo una prima fase di “innamoramento” dove sono iperadeguati , ordinatissimi, cominciano a tirare fuori la rabbia , e a volte ti gridano “non sei mia madre!”, racconta Cristina, che oltre a ricordare anche le complicazioni pratiche, ad esempio quando i bambini sono di religione diversa ( «A tavola facevamo due preghiere, e dovevo comprare la carne in negozi speciali perché alcuni musulmani vogliono animali macellati diversamente» ), ammette che il dolore più grande è quando non si riescono a sanare ferite del passato: “Un ragazzo mi disse una frase che non scorderò: ” Non è colpa tua, sono io che non merito l’ amore”. Poi ci sono le difficoltà con i servizi sociali, che spesso latitano o , peggio , non ascoltano le famiglie affidatarie “Nel mio penultimo affido ho detto agli assistenti che il bambino non doveva tornare in famiglia, perché sarebbe stato maltrattato di nuovo, ma non mi hanno ascoltato”, ricorda Francesca.

Infine, non ultimi, i problemi con i figli che già ci sono. “Ai nostri bambini di sei e quattro anni abbiamo detto che avremmo ospitato per un po’ un bambino in difficoltà”, racconta Norma, insegnante, sposata con un dirigente di una cooperativa sociale e madre affidataria di quattro bambini, tra cui un ragazzo ancora con lei. “Ma non sempre i figli reagiscono come chiediamo loro, e bisogna rassicurarli di continuo che non si toglierà loro nulla”. Eppure non c’ è dubbio: al netto della fatica pratica ed emotiva, degli ostacoli burocratici e della sofferenza quando i bambini se ne vanno ( magari tornando in una situazione familiare non risolta) , una volta iniziata l’ esperienza dell’ affido è difficile smettere. “Tiri fuori capacità di comprensione e tolleranza che mai avresti pensato di avere “, dice Norma. “Quando un adolescente che è rientrato a casa torna da te nei momenti di difficoltà per chiederti un consiglio c’ è una soddisfazione che non si può spiegare”, aggiunge Cristina.

Infine Francesca : “Appena arrivano , specie quando provengono da istituti, i bambini vogliono immediatamente restare. E’ incredibile vedere come si rendano conto di aver trovato un gancio in mezzo al cielo, una strada di salvezza. E bastano poche parole, a volte, a ripagarti di tutto. Come quando uno dei miei bambini mi ha detto: “Francesca, se non fosse stato per te sarei morto”