A che serve una «Comunità mamma-bambino»?

mamma bambinoSolo in casa, seduto davanti a un bicchiere di latte e biscotti. Ivan, nome di fantasia, sei anni appena,  lo hanno trovato così gli assistenti sociali. Calmo e rassegnato a trascorrere in solitudine l’intera mattina tra la televisione e i giochi.

Era la routine. Sua madre usciva di casa presto per cercare lavoro,  quando il papà aveva chiuso dietro di sé la porta ormai da qualche ora.

Un giorno i vicini di casa hanno lanciato l’allarme e il bimbo in poche ore è stato portato in una comunità mamma-bambino insieme con la mamma.

Sono bastati sei mesi per rimettere in piedi la famiglia, rendere la signora consapevole dei rischi a cui esponeva il figlio. Ma soprattutto far capire alle educatrici di Ai.Bi. che quella era comunque una famiglia sana. E  senza esitazioni le educatrici hanno scritto a caratteri cubitali un parere negativo sul decreto di adottabilità che riguardava il piccolo.

Alla fine del percorso, mamma e bambino hanno lasciato la struttura. La donna, minuta e con capelli biondi che incorniciano un viso scavato, non riusciva a trattenere le lacrime. Catapultata da un giorno all’altro nella comunità, lei di origina slava, alle prese con l’italiano, all’inizio era spaventata: temeva di essere fraintesa. E invece ha trovato di fronte a sé persone non prevenute, alle quali si è affezionata.  E che l’hanno ‘promossa’ a pieni voti come ‘una brava mamma’.

L’ultimo giorno di soggiorno in Comunità la donna ha lasciato un biglietto scritto nella sua lingua. Eccolo:

«Sono arrivata in Italia con mio figlio per fare una piccola vacanza e stare con mio marito che era già qui a lavorare. Mentre ero qui è successa una cosa grave e ci hanno portato in comunità. Quando sono arrivata mi sentivo spaventata, arrabbiata e molto triste, perché io, mio figlio e mio marito non potevamo vivere assieme come una famiglia. Non capivo bene cosa stava succedendo. Ero molto agitata perché avevo una paura grande: non riuscire a far emergere le cose positive della nostra famiglia, e della mia relazione con mio figlio. La mia cultura e quella italiana sono diverse e quindi avevo paura che nessuno potesse capire come siamo abituati a vivere la famiglia. L’inizio è stato accompagnano da tanta sofferenza. Mi sembrava che le educatrici fossero chiuse nei miei confronti. In realtà col tempo ho imparato a conoscerle e ho scoperto che con la collaborazione potevo esprimere quello che ero. Le educatrici col tempo hanno visto le cose positive della relazione con mio figlio e mi facevano vedere un’immagine positiva di me come mamma e come persona. Una cosa che mi è piaciuta della comunità è che si organizzano tante iniziative per far stare bene chi ci vive, soprattutto i bambini.

Stare con mio marito e con mio figlio, tutti assieme, mi è mancato. Quando tra un anno sarò nel mio Paese e ripenserò alla comunità sarò contenta di essere riuscita a far vedere cosa siamo. Sono felice che le educatrici siano riuscite a capirmi e cogliere le cose positive della mia famiglia e della mia cultura.

 La mia paura iniziale non si è realizzata e tutti sono riusciti a vedere la mia famiglia per quello che è, con le sue difficoltà e i suoi pregi.

 Comunità come questa, che nel mio Paese non esistono, ma credo siano preziose per aiutare le mamme e i bambini in difficoltà. Spero che la mia storia possa essere di aiuto anche per altre persone, perché anche le storie che iniziano male hanno la possibilità di finire bene.»