Aaron, 2 anni, adottato da 3000 mamme e papà!

PALERMO – «Lo abbiamo visto la prima volta il 13 giugno. Il primo attimo con lui è stato di spalle, ci veniva incontro in braccio a un’assistente dell’Istituto di Nairobi, dove siamo andati a trovarlo. Si è girato appena, era un pochino addormentato. Mia moglie aveva appena pianto, di nascosto, sul divano della sala d’attesa».

È con un pianto dirotto che ha inizio questa storia. Marika e Michele, 38 e 44 anni. Lui lavora in Comune, lei insegna danza. Vengono dalla provincia di Palermo, un centro di 3mila abitanti in cui tutti conoscono tutti e dove Aaron, loro figlio, sarà il primo bimbo nero. «Qui tutti sapevano dell’arrivo di Aaron e ora che siamo tornati è come se fosse stato adottato da tutti. Già lo aspettano all’asilo e la maestra chiede di lui», racconta il babbo, cui chiediamo di rammentare il momento dell’incontro. «Inesprimibile… ci siamo sciolti. All’inizio non sapevamo che fare. Poi in tre o quattro minuti, appena ci siamo messi a giocare con lui, è cambiato tutto. È stato subito come se fosse vissuto sempre con noi. Non me lo so spiegare. Durante i corsi formativi ci erano stati prospettati casi difficili, per metterci in guardia, ma con lui non è stato necessario. Perché lui è così. È buonissimo».

«È strano. Sembra che ci conosciamo da sempre – riflette la mama –. Il momento dell’incontro è stato sicuramente molto emozionante. Il cuore batteva a mille, ci siamo ritrovati nell’ingresso dell’Istituto, ci hanno fatti accomodare e io sono scoppiata in gran pianto. Ero contenta. Toccavo per la prima volta il mio bambino. Poi è arrivato. La signora ce lo avvicinava con calma. Dopo alcuni minuti, Aaron ha visto che giocavamo con lui, che gli davamo retta, e si è fidato. Ormai fa parte di noi». È come se vi avesse riconosciuti? «Sì. Ha riconosciuto i nostri abbracci, lui che non ha mai conosciuto né abbracci né baci. Sembrava che ci conoscessimo da sempre, non da sei mesi soltanto – continua lei –. Peccato non esserci incontrati prima, ci diciamo; però è una fortuna esserci conosciuti quando lui aveva solo un anno e sette mesi. Ora ha due anni e due mesi e ho scoperto che gli piace ballare. Sente la musica e va a tempo», è la sua gioia di mamma e ballerina.

«Ci dà personalmente fastidio sapere che un’altra coppia è in Kenya ad aspettare il verdetto dell’Ambasciata». Michele e Marika infatti hanno legato moltissimo con due genitori adottivi, conosciuti a Nairobi durante le lunghe pratiche necessarie a conseguire la positiva sentenza del Tribunale locale. A queste difficoltà, ultimamente si è aggiunta una prassi da parte dell’Ambasciata italiana, contraria allo svolgimento indolore dell’iter adottivo kenyota: allo scopo di rilasciare un titolo di viaggio valido per il bambino adottivo, gli uffici dell’ambasciatore italiano pretendono un certificato di nascita del bambino corredato di fotografia identificativa.

«Mi stupisco», commenta Michele, ancora perplesso e risentito. «Non esiste in Kenya il rilascio di un documento simile. Mi stupisco che la nostra Ambasciata non si fidi di ben sei documenti forniti come prova: la relazione dell’Istituto, la sentenza del Tribunale di Nairobi, l’autorizzazione della CAI, la registrazione all’anagrafe dei bambini adottabili, la relazione del Children Department e la dichiarazione d’identità predisposta dall’Ente autorizzato». «Siamo rimasti in contatto via Skype con la coppia che sta aspettando di rientrare a casa in Italia – è l’intervento finale di Marika –. Ogni volta che li vedo comparire su Skype non riesco a fare a meno di piangere. Dovete dirlo. Non dovete lasciar correre questa cosa che succede in Ambasciata».