Sopravvissuta allo sterminio etnico in Ruanda, adottata a due anni in Italia, ritrova la propria famiglia di origine. 23 anni dopo

Una storia unica, di quelle che si possono trovare nei film: è quella di Jeanette, anzi Beata, il nome che aveva ricevuto dalla sua famiglia naturale, in Ruanda. Una vicenda davvero incredibile, quella della giovane che ha conseguito un master in ‘audio video’, fa la fotografa e videomaker nel cuneese ed ha due figlie. Sì, perchè nel 1994, nel pieno della sanguinosa guerra civile che ha insanguinato il Ruanda, Beata era stata portata dalla madre, con la sorella gemella e un altro fratello dentro la chiesa cattolica di Nyamata, in cerca di scampo dalla furia etnica degli Hutu. Mille morti in quella circostanza e lei, a due anni, tra i pochi a scampare, sopravvissuta grazie alla ‘protezione’ dei cadaveri degli altri. Quindi l’orfanotrofio e la svolta: un programma di adozione internazionale la coinvolge e la porta in Italia, dove incontra e s’innamora della sua nuova famiglia: i Chiapello, a Dronero, nel cuneese.

La vita che scorre pian piano sempre più ‘normale’, gli studi, il master in ‘audio video’, l’amore che arriva e poco dopo due figlie, di quattro anni e mezzo e un anno. Fino al 2011, quando un altro fratello, Vincent, la riconosce in foto e la contatta, raccontandole la ‘sua’ storia. Lei è Beata, perchè Jeanette è il nome che le aveva dato un missionario in Africa dopo il suo ritrovamento. I mille dubbi di un passato che riaffiora all’improvviso, la speranza e la volontà di scoprire davvero la verità. Arriva il contatto con il programma ‘Radici’ di Davide De Michelis (RaiTre), che l’invita ad andare fino in fondo. Il test del DNA, che conferma: è davvero figlia naturale di Leonard. Infine, il volo verso il Ruanda per incontrare e riabbracciare suo padre naturale. Con l’immensa gratitudine per chi le è stata accanto in tutto questo tempo e, soprattutto, nella fase più difficile del recupero del proprio passato: “Devo ringraziare soprattutto i miei genitori adottivi, Anna e Giovanni, mio fratello adottivo, e il mio compagno, che mi sono stati vicini. È stata una terribile, meravigliosa avventura. Ma ora mi sento più completa”.

Il racconto della storia di Jeanette-Beata in un articolo del Secolo XIX