Come capire ciò che accade intorno a noi?

ascensione del signoreIn occasione della festività dell’Ascensione del Signore, la riflessione del teologo don Maurizio Chiodi prende spunto dai brani degli Atti degli Apostoli (At 1,1-11), della Lettera agli Ebrei (Eb 9,24-28; 10,19-23) e del Vangelo di Luca (Lc 24,46-53).

 

 

La solennità dell’Ascensione ha un duplice volto, per noi.

È memoria della definitiva separazione di Gesù dai suoi, da noi, e della sua assunzione al cielo, nel «santuario» divino, «al cospetto di Dio in nostro favore». C’è qualcosa di agrodolce in questa festa: amarezza e dolcezza, tristezza e gioia, dolore e speranza, lutto e consolazione …

Abbiamo ascoltato il racconto di questo ultimo e finale momento della vita terrena di Gesù dall’evangelista Luca, sia negli Atti degli Apostoli, la prima lettura, sia nel Vangelo.

Negli Atti, Luca dice che Gesù «durante quaranta giorni» «si mostrò … vivo», ai suoi discepoli, «con molte prove». Tra la Pasqua e l’Ascensione, per quaranta giorni, un tempo chiaramente simbolico, legato al significato del numero quaranta nella storia biblica, Gesù è apparso ai suoi e a loro ha parlato, dicono gli Atti, «delle cose riguardanti il regno di Dio».

Quante cose i discepoli non avevano capito di Gesù! Quante cose avevano frainteso! Dopo la Pasqua, è Gesù stesso che li aiuta a comprendere tutto quello che era accaduto. Il Nuovo Testamento sottolinea questa ‘superficialità’ dei discepoli, che fanno fatica a comprendere Gesù, prima della Pasqua.

Anche negli Atti, oggi, «quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?».

È una domanda che rivela attese sbagliate dei discepoli, nei confronti di Gesù. È così facile, anche per noi, farci un’idea nostra di Dio, ridurlo ai nostri schemi, alle nostre idee, alle nostre parole. Così noi pretendiamo di ‘ingabbiarlo’, di ridurlo in nostro potere, di dominarlo, di ‘usarlo’ a nostro vantaggio.

È una tentazione forte, pericolosa e ricorrente: farmi un Dio ‘a modo mio’!

È il rischio di una ‘religiosità individualistica’, che non passa attraverso la comunità, la Chiesa. È il rischio di una ‘religione consolatoria’ che serve a trovare ‘facile’ conforto alle fatiche e alle difficoltà della vita, più che a incontrare il Signore così come egli si è comunicato a noi, in modo sempre sorprendente e non immaginabile, non prevedibile.

Secondo il racconto degli Atti, in quei quaranta giorni, Gesù chiede ai suoi di non allontanarsi da Gerusalemme, di rimanere uniti, tutti insieme, per «attendere l’adempimento della promessa del Padre» secondo i suoi «tempi o momenti». È la promessa dello Spirito Santo: «sarete battezzati in Spirito Santo», «riceverete la forza dallo Spirito Santo…».  E poi anche nel Vangelo, per la terza volta: «Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso».

Gesù ci lascia, ma non ci abbandona, perché ci lascia il suo Spirito, il dono di Dio che diventa forza per i suoi discepoli, per noi.

Lo Spirito è forza per la nostra debolezza, per le nostre incertezze, per le nostre fragilità, per le nostre infedeltà, per le nostre meschinità.

Così è anche per noi, oggi: siamo in attesa del dono dello Spirito, che celebreremo nella prossima domenica di Pentecoste, il fuoco di Dio che ci purifichi, ci riscaldi, ci illumini, ci dia forza e speranza!

È un fuoco che ci illumina perché rivela la luce di Dio, il volto di Dio, in Gesù, contro la tentazione, nella notte e nell’oscurità della vita, di immaginarci un Dio a nostra immagine e somiglianza, per accogliere invece il Dio che si è fatto carne nella storia di Gesù.

Invochiamolo anche noi, questo dono!

Siamo così deboli e fragili, così incerti e paurosi. È solo per la forza dello Spirito che noi possiamo mettere in pratica le parole che Gesù dice ai suoi discepoli nel Vangelo, invitandoli a predicare «a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati» e chiedendo loro di essere «testimoni» di lui!

La nostra fede non si può restringere a una razza, un popolo, una cultura!

È destinata a tutti, è universale, è ‘cattolica’. Allora dobbiamo ‘uscire’, non rimanere chiusi nelle nostre case, nelle nostre comunità.

È la Chiesa ‘in uscita’, di cui ci parla tanto Papa Francesco, quando ci spinge ad andare, con coraggio e con forza, superando egoismi, facili comodità, per andare a tutti, specialmente i poveri, i sofferenti, quelli che sono esclusi e ‘scartati’.

Il Vangelo e gli Atti poi, in modo simile, ma con alcuni particolari differenti, raccontano il tristissimo momento del distacco.

Da allora, Gesù non ha più camminato sulle strade di questo mondo. Gesù è assente. Non c’è più. Non è più visibile. Nessuno di noi l’ha toccato, l’ha visto, l’ha ascoltato. Gesù ci manca: «alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo».

Gli Atti invece dicono che, dopo le ultime parole di Gesù, mentre i ‘suoi’ «lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi».

Gesù se ne va e i discepoli non possono farci nulla.

Dicono gli Atti che, mentre sono lì con gli occhi fissi al cielo, «mentre egli se ne andava», proprio in quel momento, «due uomini in bianche vesti» si presentano ai discepoli e li scuotono: “Che cosa fate lì, a guardare il cielo?”.

Sono parole forti, quasi un sottile rimprovero, parole che ci mettono in guardia dall’essere uomini e donne tristi, per una perdita, per un lutto.

È anche la tentazione di rifugiarci in cielo, per fuggire le fatiche, le ansie e le lotte della terra.

È la tentazione di disprezzare la terra, come se non fosse la nostra casa.

Questi due uomini ci mettono in guardia anche dalla tentazione di dimenticare che «questo Gesù, …, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».

È il rischio di vivere su questa terra dimenticando Dio, lasciandoci prendere dall’affanno di chi vive come se Dio non ci fosse, quasi diventando padroni della nostra vita e di questo nostro mondo.

Né tristi né affaticati.

Il Vangelo dice che i discepoli che «tornarono a Gerusalemme con grande gioia» e, in più, «lodando Dio». Ecco allora la dolcezza, la gioia, la consolazione, la speranza di questa festa.

La seconda lettura, la lettera agli Ebrei, si conclude oggi proprio con la nota della speranza, per tutti noi: «manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso». Gesù è entrato «nella casa di Dio», nella casa di Dio, come «un sacerdote grande a nostro favore». Con la sua carne di ‘risorto’, Gesù siede in cielo, nella comunione con il Padre e questa è la fonte della nostra speranza.

È là, a prepararci un posto, perché anche noi possiamo un giorno godere della sua presenza in modo pieno e definitivo.

Ora, questa speranza, per noi che siamo ‘in cammino’ sulla via, è la nostra luce, la nostra forza.

Possiamo fidarci della sua promessa e camminare con gioia, nella lode di Dio e nella comunione della fraternità, contro ogni fatica e dolore.

Camminiamo cantando, nella speranza!