Centro America. Jon Cortina, il sacerdote ingegnere che spese la vita per gli altri

La storia, sconosciuta ai più, di Jon Cortina, padre gesuita che a El Salvador fu a lungo punto di riferimento per bambini e famiglie piagati da anni di guerra civile. E alla cui Asociación Pro Búsqueda de Niños y Niñas si devono oltre 170 ricongiungimenti familiari

Appena sveglio, la mattina del 17 novembre 1989, un ingegnere salvadoregno accese la radio per ascoltare le ultime notizie sulla guerra civile che devastava El Salvador da ormai dieci anni. Era un’abitudine che lo accompagnava da sempre, che lo connetteva con il mondo degli uomini, con la realtà quotidiana di quanti lottavano tutti i giorni contro la miseria e, dal 15 ottobre 1979, contro i propri connazionali per decidere chi avesse diritto – o più diritto degli altri – a definirsi salvadoregno. Era il decimo anno di guerra civile in El Salvador e, dopo aver recitato le proprie preghiere come tutte le mattine, l’uomo uscì dal suo monolocale con una tazza di caffè nero bollente in una mano e la sua radiolina alimentata da quattro pile stilo nell’altra.
L’uomo si chiamava Jon, viveva in una comunità chiamata Guarjila, non lontano dal confine con l’Honduras.

Una mattina diversa da tutte le altre

Quella mattina aveva lo stesso sapore delle precedenti: tutto era al proprio posto, il vento frusciava tra gli alberi come sempre, il fiume Sumpul echeggiava nella valle con il suo solito ruggito, il gallo del vicino cantava annoiato come ogni giorno. Eppure, quella mattina, la vita dell’ingegnere cambiò per sempre. La voce gracchiante del cronista radiofonico iniziò a raccontare di un massacro avvenuto il giorno prima, il 16 novembre, negli edifici dell’Universidad Centroamericana José Simeón Cañas. Otto persone, sei uomini e due donne, erano state uccise da un plotone dell’esercito regolare inviato dal Comandante Guillermo Benavides. Jon, che di cognome faceva Cortina, era un sacerdote gesuita, come gesuiti erano i sei uomini deceduti poche ore prima. Le notizie correvano veloci durante la guerra civile e raramente erano revisionate e confermate prima di essere diffuse dai mezzi di comunicazione. Fu così che Jon Cortina sentì pronunciare il suo nome tra quelli delle vittime del massacro elencati dal cronista. Effettivamente, in quei giorni il sacerdote avrebbe dovuto trovarsi nella capitale assieme ai propri confratelli e, per un attimo, l’uomo dubitò di essersi realmente svegliato nel suo letto quella mattina, di aver recitato le proprie preghiere, di aver preparato il caffè e di trovarsi ancora nel mondo terreno. Dovette tastarsi il corpo, sentire che la carne era ancora carne per convincersi di non stare sognando e di stare vivendo l’incubo reale della guerra civile.
Da tempo i gesuiti si impegnavano con tutte le proprie forze affinché il Governo di Alfredo Félix Cristiani e il Fronte di Liberazione Nazionale Farabundo Martí raggiungessero un accordo di pace e, in nome di quell’impegno di pace, sei di loro, oltre a due donne, avevano perso la vita.

L’impegno per i bambini rimasti senza famiglia

Jon Cortina era nato nel 1934 a Bilbao, in Spagna, e dal 1955 viveva in El Salvador dedicandosi alla costruzione di ponti, pozzi e strade per dare dignità alle condizioni di vita precarie delle comunità locali, oltre a svolgere il proprio lavoro pastorale e denunciare le violazioni dei diritti umani che affliggevano quella terra. Il Cantón di Guarjila, dove il sacerdote concentrava i suoi sforzi, era un luogo vicino al confine hondureño, appena oltre il quale le Nazioni Unite avevano allestito un campo per quanti erano costretti a fuggire dal conflitto civile.
In quanto luogo di transito, quella valle si era trasformata in un teatro di sequestri, violenze e soprusi di ogni genere ai danni di centinaia di bambini, bambine e famiglie di questi, di cui pochi avrebbero avuto conoscenza se non fosse stato per l’impegno di Jon Cortina e Ralph Sprenkels, un ricercatore olandese specializzato in diritti umani.
La guerra civile in El Salvador ebbe fine con gli accordi di pace del 1992 e, tra le innumerevoli atrocità avvenute durante diciassette anni di conflitto, una cicatrice profonda squarciava il petto degli abitanti di quel Cantón.

Per far sì che il corso della storia non cancellasse le tracce di ciò che era avvenuto tra quelle montagne, nel 1994 il sacerdote volle istituire la Asociación Pro Búsqueda de Niños y Niñas, alla cui costituzione contribuirono l’amico olandese Sprenkels, le attiviste per i diritti umani Mirna Perla de Anaya e Dorothee Molders, insieme a Magdalena Ramos, Francisca Dubón y Francisco Abrego, tre familiari di altrettanti bambini e bambine rapiti.
L’Associazione iniziò a prodigarsi per l’individuazione dei minori scomparsi e per il ricongiungimento con le proprie famiglie. Fino alla morte del padre Jon, avvenuta nel 2005, dei 754 casi considerati, l’Associazione Pro Búsqueda ha aiutato 172 giovani a riabbracciare i propri cari. Inoltre, ha potuto accertare 39 decessi, ha localizzato altri 90 giovani che, per vari motivi, non sono tornati in contatto con le famiglie d’origine e, ad oggi, permangono 453 casi di bambini e bambine di cui non si è più avuto notizia. Alla maggior parte dei 172 giovani reintegrati tra i propri cari era stato raccontato di essere orfani o di essere stati abbandonati. Alcuni erano stati adottati da famiglie del Salvador, altri da genitori statunitensi, canadesi o europei.
L’Associazione, oggi, resta un faro che fa luce su un pezzo di storia nazionale che rischia di essere dimenticata o, peggio, di passare per quei processi di revisionismo che, come un colpo di spugna, pretendono di lavare via le atrocità commesse durante decenni, nell’indifferenza per il dolore che ha cambiato per sempre la vita di migliaia di persone.
Dal 2006, la casa di Jon Cortina è una casa museo visitabile da chiunque voglia conoscere le famiglie del luogo e approfondire questo capitolo di storia del Paese.

Pierandrea Torchiuli
Cooperante di Ai.Bi. in Centro America