Lavorare nel sociale, una scelta motivata e consapevole

Da un’indagine del CNCA su 2.500 operatori sociali, emerge che il 66% guadagna meno di 1.200 euro al mese e il 39% ha contratti precari. Ma la motivazione resta piu’ forte dei problemi.

Salari bassi e contratti precari, ma una grande motivazione a lavorare nei servizi alla persona.
È questa la fotografia degli operatori sociali scattata dall’indagine sul lavoro sociale “Voci e volti del welfare invisibile”, che ha coinvolto oltre 2500 operatori sociali, del terzo settore (85% del campione) e del pubblico, in tutta Italia.
Una voce, quella dei lavoratori del terzo settore, che fatica a farsi sentire in Italia e che lancia un messaggio al governo e agli enti locali per rafforzare l’attenzione sul welfare e aumentare le risorse.
L’inchiesta realizzata dal CNCA (Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza) è stata promossa da diversi esponenti del privato sociale, delle istituzioni e della politica: Lucio Babolin, Pietro Barbieri, Simone Casadei, Silvana Cesani, Tonio Dell’Olio, Salvatore Esposito, Antonio Ferraro, Sergio Giovagnoli, Roberto Latella, Vittorio Mantelli, Giulio Marcon, Andrea Morniroli, Giacomo Smarrazzo, Damiano Stufara.

La stragrande maggioranza del campione, il 76%, è soddisfatto dell’organizzazione per cui lavora. “Dato che paradossalmente scende al 61% se si prendono in considerazione i soli operatori del pubblico, dove le garanzie lavorative sono nettamente migliori del terzo settore”, fanno notare i curatori dell’indagine. Il principale responsabile dei problemi relativi alla condizione lavorativa sono le amministrazioni pubbliche e solo in una parte del terzo settore, mentre un elemento da sottolineare è il forte desiderio di partecipazione degli operatori alla vita delle organizzazioni.

Attraverso questa indagine, si delineano anche le linee guida che secondo chi lavora nel campo dovrebbe avere una riforma dei servizi alla persona. Bocciata l’ipotesi di introdurre logiche di mercato e il sistema caritatevole delle Social card, necessario invece per il sistema di welfare è adeguare la spesa sociale alla media europea e integrare i servizi sociali, sanitari ed educativi (ritenuti troppo scarsi). Per quanto riguarda i diritti degli utenti, il 44% degli intervistati ritiene che siano poco rispettati, soprattutto per responsabilità degli enti pubblici.

L’inchiesta ha coinvolto un campione variegato, da chi lavora all’interno dei servizi e degli interventi del welfare locale a tutte le figure professionali operanti nel sociale: assistenti sociali, educatori professionali, sociologi, psicologi, pedagogisti, assistenti domiciliari, mediatori culturali, operatori impegnati negli interventi di promozione sociale, nell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, nei servizi alla persona a carattere domiciliare, semiresidenziale e residenziale.

Il 45 % dei lavoratori e delle lavoratrici intervistate ha meno di 36 anni; il 43% rientra nella fascia 36-50 anni; poco più del 9% ha un’età compresa tra i 51 e i 60 anni; poco più del 3% ha più di 60 anni.

Il 65% sono donne, a ribadire la marcata femminilizzazione del lavoro sociale, un dato particolarmente significativo che cela la necessità di conciliare tempi e condizioni lavorative.

Circa l’85% del totale degli intervistati lavora nel Terzo Settore, in prevalenza nella cooperazione sociale (l’8% dei quali con funzioni dirigenziali o di staff), l’11% nella Pubblica Amministrazione locale o in Sanità.

I lavoratori stranieri rilevati dall’indagine sono meno del 4% del totale, un’ulteriore conferma della familiarizzazione dell’assistenza nel nostro paese. Massicciamente presenti nelle case delle famiglie italiane assistendo anziani, bambini, disabili (oltre 600.000 assistenti familiari con lavoro regolare, altrettante quelle “invisibili”) gli operatori sociali stranieri sembrano “scomparire” dalla rete dei servizi territoriali che occupa, secondo recentissime ricerche svolte dall’Isfol e da altri Istituti di ricerca, circa 700mila lavoratori e lavoratrici.

Il lavoro di inchiesta offre una serie di dati e molti spunti di riflessione rispetto ai temi del welfare e dei servizi alla persona.  In primo luogo emergono condizioni di lavoro, sul terreno salariale e dei diritti, molto pesanti per chi opera in questo settore spesso con titoli di studio medio alti. Circa la metà degli intervistati svolge il proprio lavoro a tempo pieno. Di questi, il 66% guadagna meno di 1200 euro al mese (una percentuale che include il 23% degli intervistati, che dichiara di guadagnare tra gli 800 ed i 1000 euro mensili).

La maggioranza degli operatori hanno “scelto” questo lavoro e non gli è capitato. Infatti alla domanda: “perchè hai scelto di fare questo lavoro?” il 45 % sostiene che è un lavoro che lo stimola, il 40% che gli permette di stare in contatto con persone diverse e mettersi in discussione, mentre solo il 6% sostiene di averlo scelto perchè non trovava altro. Così come la motivazione, rileva l’indagine, anche la percezione di qualità dei propri servizi è piuttosto alta in una scala da 1 a 5: il 56% (che scende al 44% se si considerano solo gli operatori del pubblico) degli intervistati posiziona il proprio servizio tra un livello 4 e un livello 5, mentre solo l’11% lo posiziona tra l’1 e il 2, il 30% si dispone su un terreno intermedio indicando 3. Lo stesso giudizio non viene però attribuito al lavoro di rete e di integrazione dei servizi. Infatti, il 64% degli operatori giudicano il livello di integrazione dei servizi nell’ambito del lavoro di rete come basso o medio-basso.

Insomma, sembra emergere una fotografia dei servizi di buona qualità con operatori motivati, ma scarsamente coordinati ed integrati tra loro. Inoltre, sul tema del cosiddetto “mercato del lavoro sociale” la gran parte degli operatori intervistati sostiene una critica piuttosto forte ai meccanismi di concorrenza inseriti nel mondo “sociale”, attribuendogli un’influenza negativa tanto sul terreno della collaborazione tra servizi e della qualità che sul piano dei diritti degli operatori.
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