Putin: mai più orfani russi in America

La fine del mondo? Qualcuno a Mosca sa esattamente quando avverrà: è Vladimir Putin. Non domani, ma «tra 4,5 miliardi di anni, è il ciclo di funzionamento del sole». Paura? «E di cosa, se è inevitabile?». Scorre tra le rituali battute l’annuale megaconferenza stampa di Vladimir Putin, la prima da quando è tornato presidente per la terza volta, la prima tra le proteste: 4 ore e 33 minuti per fugare dubbi sulla sua salute davanti a 1.200 giornalisti russi e stranieri. Non al Cremlino come da tradizione ma, inspiegabilmente, al World Trade Center nella capitale, luogo privo di sacralità. «Pare un congresso di dentisti», commenta uno dei partecipanti.

Solitamente una prova in discesa, un bagno di lodi dove le uniche domande scomode arrivavano dai corrispondenti stranieri. Ma stavolta, segno di umori cambiati nel Paese, sono i giornalisti russi a mettere in difficoltà zar Putin, che apre snocciolando cifre di successi economici. Dalla platea però risuona a martello (8 volte su 70) una domanda: perché mischiare i bambini con la politica? Si tratta degli orfani russi, diventati strumento di polemica con gli Stati Uniti.

Se oggi la Duma dirà sì anche in terza lettura alla «legge anti Magnitsky» – rappresaglia al «Magnitsky Act» con cui Washington ha messo al bando i funzionari russi ritenuti responsabili della morte in cella nel 2009 dell’omonimo avvocato, e di altre violazioni dei diritti umani – non potranno più essere adottati da famiglie americane. L’ennesimo capitolo della rinnovata guerra fredda tra le due potenze. Ma la società russa a sorpresa si è rivoltata. Molti gli appelli a bloccare l’emendamento, ieri anche il ministro degli Esteri Lavrov è tornato a dirsi contrario: «Non andrei così lontano nella nostra reazione».

Ma Putin non cede. «Risposta emotiva, ma appropriata» dice. Colpa degli americani, che vogliono «mostrare chi comanda» con una legge che «avvelena i nostri rapporti», ammettendo però di non conoscere bene il caso. In sala non mollano. «Non avete risposto, Vladimir Vladimirovieh, dite sì o no: siete per il bando totale alle adozioni dagli Usa?» incalza Radio Echo di Mosca. «Possiamo sapere com’è morto Magnitsky? In Russia è tornato il 1937?» osa un giornalista, strappando l’applauso dei colleghi. Putin si spazientisce: «Ma che succede?». E attacca: Magnitsky è solo un pretesto, tutti i problemi con Washington sono cominciati con l’Iraq. Difende il proprio operato: «Non ho creato un sistema autoritario», la democrazia non è «trotzkismo» né «anarchia». Errori in 13 anni al potere? «Nessuno grave». Malato? «Non ci sperate».

Giovani reporter di testate Internet che hanno passato lo scorso inverno in piazza coi dissidenti, chiedono conto dei prigionieri politici e delle inchieste contro gli oppositori. «Presto o tardi lascerò questo posto», promette Putin dribblando altri colpi.

( La Stampa, 21 Dicembre 2012)