Ferragosto a Lampedusa: “Verbo essere sotto la luna”

lampedusaSi è conclusa nei primi giorni di agosto la seconda edizione del campo di volontariato organizzato da Amici dei Bambini a Lampedusa. Un’esperienza a contatto con il fenomeno dei popoli in fuga che ha visto impegnati diversi giovani provenienti da tutta Italia. Uno di loro, Graziano, ha voluto mettere nero su bianco le sue emozioni e ciò che ha imparato durante questa esperienza. Lo ha fatto attraverso una bella metafora che mette a confronto la realtà di chi emigra e quella di chi dovrebbe accogliere, ma spesso è frenato dal proprio egoismo.

 

 

È che la vita già troppo spesso sembra indecifrabile. Sarà che, quando ti pare di averne interpretato un pezzettino, ti viene inevitabilmente voglia di gioirne e condividere la scoperta. È senza dubbio che io non sono Neruda e le metafore che mi vengono non sono né sofisticate né poetiche: sono – anzi – come quella cosa da cui proveniamo tutti, Terra Terra, e sulla quale ci scanniamo tanto ad essere primi, secondi e, se serve a sentirci superiori agli altri, pure terzi. La mia metafora lampedusana è comparsa un mattino al termine di un sogno sulla giornata precedente. È che mi sono detto: stare al mondo è come quel gioco che da bambini è toccato a tutti. Ci sono tante sedie di paglia e, attorno, i partecipanti in piedi che cercano di sedersi.

Facciamo finta che nasci in un posto dove non soltanto non mancano le sedie, ma al contrario ogni persona ne ha due o tre, più di quante possa goderne nell’arco dei suoi fugaci settant’anni. Allora che te ne frega di chiedere permesso e di dire ogni giorno grazie per la fortuna di poterti sedere!? E spendi ogni minima energia ad accumulare sedie, per passare da una che reputi modesta ad un’altra che giudichi più comoda e che ti fa sentire un bel galletto. Ostenti le tue sedie. Le ricopri di tessuti appariscenti. E sopra ci lasci qualunque genere di macchia, perché le usi per tutto, non le cedi mai, non le apprezzi, ne sei geloso, fin quasi all’ossessione. Se ti tolgono le tue sedie di paglia accatastate nella stanza e nel cuore, non sei più nulla. È che tu prendi la forma delle sedie e le sedie diventano te. Infatti, non conosci più il verbo Essere, per te tutto ciò che conta è il verbo avere.

Nel frattempo, un po’ più in basso o un po’ più a destra rispetto a dove stai tu, il gioco si svolge con le stesse regole, ma le sedie non bastano per tutti. Ce n’è a malapena una sgangherata, stra-usata, che sembra debba sfaldarsi da un momento all’altro per un semplice buffetto. E, tutto intorno, i giocatori sono tantissimi, ma davvero un numero inimmaginabile. Anelano a quell’unica sedia, perché – se non riescono a sedersi – muoiono. È che per loro non ha senso fare collezione di sedie, non lo desiderano neppure, ma come ogni essere umano quei giocatori hanno bisogno di un posticino per sospirare dopo la fatica, per costruire il presente e il futuro, per onorare l’esistenza che hanno ricevuto senza sentirsi schiacciati. E come si fa a sedere in migliaia su una sedia di paglia!? Ammesso che ci si possa provare, come in una catasta umana da circo, qualcuno viene pigiato e soffoca, qualcun altro rinuncia, qualcuno piange, qualcuno pensa che non sia giusto e basta.

Senti, – fa uno all’improvviso – è che secondo me varrebbe la pena di andare alla ricerca di altre sedie. Se non le possiamo portare qui, le usiamo là, finché anche noi avremo imparato a costruire piccole sedie per tutti oppure semplicemente, con un po’ di malinconia per questo nostro Ventre che abbandoniamo, riusciremo a stare un po’ seduti.

Già, – dice un altro – parli bene tu, ma le sedie sono lontanissime e bisogna avere una benedizione particolare per poterle anche soltanto vedere.

Ho sentito – interviene un terzo –  che c’è un Ventre molto più piccolo del nostro, dove però ogni giocatore ha più di una sedia e tutti vivono contenti e in abbondanza e non devono implorare per poter mangiare.

In effetti, – borbotta un vecchio saggio – la paglia per realizzare tutte quelle sedie l’hanno presa qui da noi e hanno rubato anche il ferro per le reti che proteggono i loro tavoli e il vetro speciale per avvistarci da lontano quando proviamo ad avvicinarci e hanno portato via le pietre per costruire i muri e per lapidarci quando allunghiamo la mano. Loro sono così.

Nessuno lo ascolta. E già qualcuno ha scrollato la polvere dai piedi nudi per intraprendere il cammino, che non immagina essere così arduo e pieno di rovi e di veleno.

Una sedia da conquistare evoca sogni incredibili e smuove energie. Per essa si potrebbero sfidare anche gli abissi di un mare subito dopo un deserto e i bastoni: è così per dire, in fondo questo è semplicemente il racconto di un gioco.

Mentre il battito di chi ha lasciato il campo da gioco assegnato è per una sedia immaginaria, oltre il muro quegli altri continuano a giocare con le loro sedie vere.

Serve una lente particolare per osservarli e capirli: non devono nemmeno sfidarsi per stare sempre seduti, possono allungare le gambe su sedie supplementari, eppure – se li studi attentamente – scopri che essi non sono felici. Affermano di esserlo, ma non è così. Sarà che il possesso delle sedie che li posseggono li ha resi sospettosi. Sarà che mettere catene e lucchetti tutte le sere alle sedie del giardino è faticoso. Comunque, non sorridono. Hanno, però non sonoNon sono più, almeno. Non sono grazie, non sono permesso, non sono scusa. Non sono fedeltà, non sono rispetto, non sono Amore. Non sono pazienza né gentilezza, non sono ascolto né tenerezza, non sono fedeEssi sono sedie e si sono convinti che essere sedie sia anche vivere. Hanno scordato che vivere significava anche cedere, di tanto in tanto, la propria sedia ad uno zoppo che non si regge più sulle gambe. Hanno deliberatamente iniziato ad ignorare che settant’anni sono il contrario dell’eternità: quando sono passati, se non hai vissuto appieno, sei un pugno di mosche. Come le loro sedie cui tengono più della loro stessa anima, essi sono fatti di paglia: bruciano facilmente, incendiano la Verità, si squagliano, sono buoni per la lettiera degli asini. È che vivono, se si può parlare di Vita, di falsi miti e valori, e per difenderli devono affinare l’arroganza e il potere terreno. Guai a suggerire loro di cedere qualche sedia, potrebbero scoprire i loro canini! Se ne hanno cento, vorranno centouno sedie; se ne hanno mille, ne vorranno duemila. E così smettono di avere cinque sensi: non vedono, non odono, non gustano, non annusano. Caso mai, tastano, sono mono-senso: curano le loro unghie lunghissime, per poter afferrare meglio.

Il cammino di chi è senza sedie prosegue sotto il vento, in mezzo all’acqua, fra il sangue, nello sconcerto di incontrare pirati che li derubano di quel nulla che si portano addosso.

Intanto, nel piccolo Ventre, un giorno, nel tentativo banale di alzarsi da una sedia di paglia, un giocatore si conficca una spina nel pollice, sotto l’unghia affilata con cui ha spolpato il pollo. È la tragediaè colpa di chi doveva mantenere le sedie in ottimo stato (naturalmente gli altri), è un attacco alla dignità, è un segno dei tempi mediocri, è una vergogna della cosiddetta modernità. È IL problema, è LA sventura che fa incazzare e disperare. Non c’è sangue, non c’è scirocco, non c’è onda sul suo dito. È una piccola spina che dà fastidio e che riporta alla concretezza del corpo; ma per il giocatore del piccolo Ventre è LA disperazione. Se egli avesse letto l’etichetta della sedia, quando l’ha comprata, lo saprebbe: può capitare che le illusioni si infrangano, che il dolore si inserisca nelle certezze consolidate e che la giornata prenda una piega storta; egli non aveva notato il bigliettino, perché era troppo impegnato ad accumulare le sedie per badare alle avvertenze.

C’è da aggiungere, per i posteri che leggeranno, che anche nel piccolo Ventre, in quest’epoca di serie C, ci sono persone capaci di dispensare le vitamine A. L’epoca è di serie C per la disattenzione, le bugie, l’ipocrisia, la freddezza, il materialismo, l’assenza di prospettiva, la melma sulle mani che prendono e grattano, la crema spalmata sulle rughe dell’avidità; ma anche qui – anche ora! – ci sono tanti farmacisti silenziosi, che regalano Amicizia, Accoglienza, Amore, Abbracci, Ascolto, Accettazione. Tenerezza, che non comincia per A, ma è una delle migliori medicine. Anvedi che robba, da non credere! Infatti, mica ci crede più nessuno tra quelli che filtrano la storia attraverso i pagliacci negli schermi.

È che, alla fine di tutto ‘sto discorsone, conta parecchio la fortuna. Vita uguale essere fortunati. Dove nasci, chi ti fa nascere, chi incontri… Se è vero che le sedie non bastano per tutti, se è vero che si fa a gara a stare sempre più comodi, se è vero che una spina può pur sempre dare noia, è altrettanto vero che devi trovare qualcuno che ti prenda la mano con dolcezza, ti dedichi un po’ di tempo, ti faccia con le pinzette ciò che da solo non avresti potuto fare o avresti fatto a fatica. Tolta la spina, grande o piccola che sia, ti ritorna il sorriso. E il gesto non lo dimentichi. E probabilmente ti viene voglia di ripeterlo a tua volta. Così, ad essere contagiosa, non sarà più l’ignoranza bensì la vitamina A.

È che, nei contrasti e nelle differenze tra piccolo e grande Ventre, rimangono spine conficcate nelle mani di molti talmente grandi che sembra di non poterle togliere né ora né mai. C’è chi crede di poterci riuscire, e questo è un bene perché rende l’epoca di serie C un po’ meno squallida, le risparmia la retrocessione.

 

Tutta questa metafora (prolissa e prosaica) è nata, come accennavo, a Lampedusa, sotto la luna più africana d’Europa, appena prima di un brindisi che sanciva la conclusione di un’esperienza magnifica con Ai.Bi. Una spina me la sono piantata davvero e proveniva da una vecchia sedia di paglia. Tutto ciò che è venuto dopo nella mia mente non appartiene a chi ha usato le pinzette per un’operazione molto semplice e senza alcun significato secondario: togliermi la spina, appunto, e stop. Però sono sempre molto grato alle persone che sfiorano la mia vita da privilegiato del piccolo Ventre: esse mi permettono, con la loro presenza, di riflettere e scrivere metafore. Sono loro grato perché, letteralmente, m’ispirano, cioè mi danno respiro quando la realtà mi appare troppo densa di anidride carbonica. Proprio a Lampedusa ho imparato uno dei modi più belli per chiamare una persona cui si è affezionati: o’scià, ovvero qualcosa tipo “fiato mio, respiro mio”. Tra tutte le vitamine A, questa è la più salutare, la più umana, la più potente: Amore. Avere amore, dare amore… O più precisamente: ESSERE Amore. Che non è necessariamente carnale, anche se chi ha incontrato il proprio basherte narra di non aver mai trovato null’altro di paragonabile.  E poi ognuno, questa cosa che io ho chiamato Essere Amore,  lo declini, nel proprio passaggio terreno, come ritiene più opportuno; in fondo, questo era soltanto uno stupido articolo per introdurre il verbo Essere dall’isola di Lampedusa che t’incanta; e di forme per Essere ce ne sono davvero tantissime.