L’Italia e quei troppi “figli adulti”. Che mai diventeranno genitori

Come sperare nel rilancio senza una concreta lotta alla denatalità? L’Italia ha una strategia per svecchiare la popolazione? Il caso della Germania

Un Paese che ha abolito i figli non può sperare nella rinascita. Questa frase, drammaticamente attuale per quanto concerne il contesto italiano, caratterizzato da troppi “figli adulti” che mai diventeranno genitori, è anche il titolo di un recente articolo di Alessandro Rosina, pubblicato da Il Sole 24 Ore. L’ennesimo, certo. Ma anche un pezzo che con rigore analitico eviscera le criticità di una situazione, quella italiana, che sta giungendo al punto di non ritorno. Quello, cioè, in cui sperare in qualsiasi svolta o ripresa economica e sociale, diventa pura utopia. Un fenomeno, quello della denatalità, che è proprio in una certa misura di tutto il mondo sviluppato, caratterizzato dall’individualismo borghese. Ma che non ovunque è stato affrontato nello stesso modo che in Italia. Vale a dire, almeno fino al Family Act, di cui però bisognerà valutare l’applicazione pratica, trattandosi di un Ddl delega, non affrontato.

Figli adulti non genitori. L’esempio dell’approccio tedesco

“Un esempio interessante dell’approccio da adottare – scrive infatti e al proposito Rosina – è quello della Germania che nel decennio precedente l’emergenza sanitaria è stata in grado di invertire la dinamica negativa delle nascite, portandole dal minimo di 663 mila del 2011 a circa 790 mila. Del tutto opposto il percorso dell’Italia che nello stesso periodo è scesa da valori attorno a 550 mila a meno di 440 mila. L’esito è ben visibile nella fascia anagrafica 0-4: in Europa ci sono oggi in tale età, rispetto al 2011, oltre 600 mila bambini tedeschi in più e circa mezzo milione di bambini italiani in meno“. Ecco che, allora, il Family Act recentemente varato, sostiene Rosina, “funzionerà non tanto per i rilevanti interventi che prevede ma nella misura in cui riuscirà a diventare il punto di partenza di un nuovo paradigma. Quello che altre economie mature che crescono in modo più solido del nostro hanno capito è che le politiche familiari vanno intese come parte integrante delle politiche di crescita, strettamente connesse con l’occupazione giovanile, la partecipazione femminile al mercato del lavoro, lo sviluppo umano a partire dall’infanzia e lungo tutte le fasi della vita. In un report appena pubblicato dall’European Parliamentary Research Service, dal titolo ‘Demography on the European agenda. Strategies for tackling demographic decline’, si ribadisce in modo chiaro che ‘Demography matters’, ovvero che la demografia conta perché struttura e dinamiche della popolazione sono in stretta interdipendenza con l’economia, il mercato del lavoro, la salute pubblica, lo sviluppo territoriale”.

Figli adulti non genitori. Il ruolo della sfiducia dopo la recessione

“I risultati positivi della Germania – continua ancora Rosina – si devono ad un solido piano di potenziamento delle politiche familiari, in termini di sostegno economico e servizi di conciliazione tra lavoro e famiglia, realizzato proprio in concomitanza della precedente recessione. Ciò ha consentito non solo di limitare gli effetti negativi sulle famiglie con figli, ma di migliorare anche il clima di fiducia (che favorisce scelte di impegno positivo verso il futuro). In Italia, al contrario, la recessione del 2008-2013 ha visto le coppie con figli combattere sul fronte dell’inasprimento delle difficoltà oggettive con a supporto deboli e frammentate politiche familiari. L’esito è stata una Caporetto sociale che ha lasciato in eredita un nocivo mix di senso di abbandono, sfiducia e insicurezza. La natalità è l’indicatore più sensibile, nei paesi più avanzati, alle condizioni oggettive del presente e alle prospettive future. Nei contesti caratterizzati da fiducia e aspettative positive, chi desidera avere un figlio più facilmente realizza tale scelta, aumenta la presenza di giovani e si rafforza il loro contributo allo sviluppo sostenibile. Dove invece le famiglie si sentono sole, si riduce la scelta di avere un figlio e si accentuano gli squilibri demografici. Se quindi è utile consolidare strutturalmente le politiche sociali in periodo di normalità, ancor più importanti sono i segnali verso i cittadini nelle fasi congiunturali negative. Inoltre, gli squilibri demografici italiani, da tempo tra i più accentuati al mondo, rischiano di essere ulteriormente aggravati dalla crisi sanitaria, con impatto tale da relegarci definitivamente ai margini dei processi più virtuosi di sviluppo nel resto di questo secolo”.

Ma, seguendo l’esempio tedesco, non tutto sembra essere perduto. “La Germania – conclude Rosina – presentava un processo di invecchiamento peggiore al nostro, ma è riuscita a rafforzare la consistenza delle nuove generazioni attraverso un aumento del tasso di fecondità assieme ad un attento governo delle immigrazioni. Grazie a ciò nei prossimi decenni si troverà con un peso relativo degli anziani simile al nostro ma potendo contare su una popolazione attiva sensibilmente più robusta”.