Giappone: l’adozione è il nuovo business delle grandi aziende

Bambino-samurai defPiccole grandi differenze che distinguono il nostro Paese da quello Nipponico: se adottare un minorenne, da piccolo o in età adolescenziale, è un gesto d’amore che guarda alla felicità del minore e della coppia, per i giapponesi adottare un adulto richiede la stessa sensibilità. Soprattutto se ci sono di mezzo gli affari. Perché per quanto in Giappone ci siano circa 40 mila minori, prevalentemente tra i 5 e i 6 anni (bambini abbandonati dalle rispettive famiglie o allontanati da queste in quanto vittime di abusi) che vivono in una delle centinaia di  ‘case d’accoglienza’, il Sol Levante preferisce adottare giovani adulti tra i 20 e i 30 anni. Solo nel 2011 sarebbero state più di 80 mila le adozioni andate a buon fine: eppure, il 90% di queste non riguarda bambini, ma uomini adulti. Perché in Giappone si sceglie di adottare un adulto? Per avere la certezza di mettere nelle mani giuste l’azienda di famiglia quando l’intelligenza e il talento per gli affari non sono necessariamente qualità ereditarie. Allora si sceglie come da un “catalogo” di giovani talentuosi quello che maggiormente va bene per la propria azienda e lo si fa sposare alla propria figlia. Matrimonio combinato in cui il lui della situazione prende il cognome della moglie in modo da acquisire diritti e doveri della famiglia che lo “adotta”. Questa pratica dell’adozione di adulti per continuare dinastie familiari e soprattutto commerciali si chiama Muko Yoshi, letteralmente “sposo adottato”. Secondo questa tradizione, una famiglia che non ha figli maschi può adottare legalmente il marito di una delle figlie, che prende il cognome e i diritti-doveri legali di un figlio naturale. La pratica esiste da secoli ed era particolarmente diffusa tra le famiglie dei ricchi commercianti del Giappone occidentale. La possibilità di essere ‘adocchiato’ come potenziale figlio adottivo stimola lo spirito di dedizione verso il lavoro (e dunque la produttività) non solo da parte degli eventuali eredi di sangue (che devono costantemente far fronte al rischio di essere messi da parte), ma anche all’ interno della stessa realtà aziendale, diventando così causa diretta di performance professionali elevate che hanno ripercussioni estremamente positive sulla competitività economica delle grandi firme nipponiche. In parole povere, se fossi il figlio del fondatore di una compagnia, non potrei starmene con le mani in mano e rilassarmi per timore di ritrovarmi un nuovo ‘fratello’ con pari diritti di successione. Da sempre matrimoni e rapporti di parentela, nel quadro culturale giapponese, hanno dunque a che fare con qualcosa che va ben oltre la sola sfera delle relazioni umane. Rappresentano una sorta di garanzia di prosperità e di prestigio da perpetrare a prezzo dei propri stessi legami di sangue. E gli esempi andati a buon fine non mancano: Osamu Suzuki della nota e omonima casa automobilistica è il quarto presidente della società ad essere adottato come, tra i molti esempi, ci sono Toyota e Canon. Non è un Paese per bambini, verrebbe da dire.