Addio a Pelé, l’orgoglio dei “nostri bambini” adottati brasiliani

È morto a 82 anni Edson Arantes do Nascimento, il “calciatore più forte di sempre” che, però, è stato molto più di questo: un mito per milioni di bambini brasiliani e un esempio diventato leggenda

Edson Arantes do Nascimento, per tutti Pelé, è morto all’età di 82 anni. La notizia era in qualche modo attesa, visto che da tempo “O Rei” era malato, ma l’ondata di commozione, di ricordi e di celebrazioni che è seguita alla notizia è stata comunque travolgente e grandissima. Perché Pelé non era solo un mito sportivo, anzi, questa parte è solo l’origine di una storia che ha travalicato i confini di un campo da calcio e si è fatta universale, incarnando nella figura di questo ex calciatore, che la Fifa ritiene il miglior marcatore di sempre, un simbolo di riscatto e di speranza per milioni di brasiliani e non solo.

Pelé: l’orgoglio di tanti bambini brasiliani adottati

Lo sanno bene i genitori adottivi che hanno accolto in casa un figlio proveniente dal Brasile, per il quale Pelé, invariabilmente, era un mito intoccabile; era un sogno diventato realtà e, per questo, l’esempio di come tutto fosse possibile.
I più giovani, oggi, fanno un po’ fatica a capire appieno il mito di Pelé, perché, in un’epoca in cui tutto si “vede” e si “tocca” con l’immediatezza di un clic, le sue gesta appaiono lontanissime. E in buona misura sta anche qui il mito che lo circonda, cresciuto, appunto, in un periodo e in un mondo in cui le imprese dei campioni, specie se rimasti per tutta la carriera da professionista “lontani”, a giocare in Brasile, nel Santos, ad eccezione degli ultimi due anni ai Cosmos di New York, venivano soprattutto raccontate a voce, arricchendosi di bocca in bocca con nuovi particolari fino a che i confini della realtà non si facevano definitivamente e per sempre indistinti.
Si narra, per esempio – lo racconta Mario Sconcerti nell’articolo uscito sul Corriere della Sera – che in occasione di una partita di Pelé in Colombia l’arbitro decise di espellere il campione. Se non ché, a quel punto, gli spettatori insorsero e minacciarono di invadere il campo, con il risultato che Pelé continuò a giocare e ad essere allontanato fu l’arbitro.
Lo stesso Pelé – come ricorda il Post – ha sempre raccontato di come il suo gol più bello fosse quello fatto in una partita del campionato paulista (ovvero dello Stato di San Paolo) quando aveva 18 anni. Un gol che, però, videro solo gli spettatori (pochi) che erano presenti allo stadio, perché non esistono immagini filmate, se non una ricostruzione digitale fatta decenni più tardi ma basata, unicamente, sui ricordi dello stesso Pelé.

Pelé è “un insieme di cose”

Questi non sono che due piccoli esempi che spiegano bene il perché Pelé sia stato un simbolo molto più che un giocatore di calcio. Non un ruolo facile, a pensarci bene, ma anche su questo aspetto O Rei è stato capace di dare una lezione che molti “campioni” di oggi dovrebbero fare propria. Racconta Aleteia, che nel 2015 un giornalista gli chiese se non si sentisse “prigioniero della sua fama”. “Beh, alcune volte sì – fu la risposta di Pelé. Ma Dio sa a chi dà le cose, e se Lui mi ha dato la fama, l’affetto di milioni di persone, la curiosità di centinaia di giornalisti, il denaro, il dono di saper giocare a calcio… mi ha dato anche la pazienza per sopportare le cose sgradevoli che queste circostanze possono comportare. Sono Pelé. Lo so. Pelé è un insieme di cose, e non vale accettare quelle gradite e rifiutare quelle che non lo sono”.

(foto Marcello Casal Jr./ABr – Wikimedia Commons)