Adozione. Guardare alle proprie origini: sfida per figli e famiglie adottive

Francesco Belletti, Direttore del CISF – Centro Internazionale Studi Famiglia – anticipa i temi della ricerca che presenterà al Convegno di Mestre del 21 aprile “Sulle orme della mia adozione”

Da dove vengo? È questa la domanda di fondo che anche tutti i figli adottati prima o poi si pongono. Una domanda che può sorgere in momenti diversi della vita e può assumere diverse formulazioni, ma che, nei fatti, rimane una sfida che le famiglie adottive devono affrontare.

Francesco Belletti, Direttore del Centro Internazionale Studi Famiglia, ha dedicato al tema particolare attenzione, studiando e osservando quanto emerso da un’importante ricerca, voluta e condotta dal movimento Ai.Bi. Amici dei Bambini in collaborazione con la Comunità Shalom di Brescia, ascoltando ben oltre 60 storie personali e familiari. I risultati e le riflessioni nate da questo lungo e attento lavoro saranno richiamate nell’intervento di Belletti nel corso del webinar “Sulle orme della mia adozione”, in programma il 21 aprile pv. In questa intervista, il Direttore del CISF anticipa alcuni dei temi principali della sua analisi e delle conseguenti riflessioni sull’impatto che la domanda di un figlio riguardante le proprie origini ha sulle relazioni dell’intera famiglia.

L’intervento si focalizza sulla domanda che ciascun figlio adottato si fa, prima o poi, sulle proprie origini. In genere, quand’è che un ragazzo adottato sente crescere l’esigenza di trovare una risposta?

La domanda sorge in momenti diversi per ciascuno: può nascere già da piccoli, ma più spesso avviene durante l’adolescenza, sommandosi ai turbamenti tipici di quell’età. Quale che sia l’età, però, la cosa importante è che questa domanda coinvolge tutta la famiglia e mette in moto delle strategie che, se vissute nella maniera corretta, spesso sono migliorative dei rapporti familiari.

Davanti a questa domanda, ci sono delle strategie comuni che i genitori possono mettere in atto?

La domanda relativa alle proprie origini è una domanda che costringe ad andare a fondo e i genitori devono gestirla. Non ci sono scelte univoche giuste o sbagliate, diciamo, però, che prolungare troppo il silenzio sulla questione rende più difficile, poi, introdurre l’argomento. Per questo la strategia di introdurre piano piano l’idea che esista una “mamma di pancia” oltre a quelle che si è presa cura di te, può essere efficace.
Dopodiché resta il fatto che ogni traiettoria di vita è diversa e tutto dipende dalla situazione specifica.
L’unico criterio forte io penso che sia la verità, che va accompagnata rispettando i tempi e le sensibilità dei bambini.

Tacere, insomma, non è mai una buona idea?

Secondo me il silenzio totale non è una strategia efficace. Prima o poi la verità viene fuori, e se arriva come un fulmine a ciel sereno è più difficile da gestire.
Sul versante opposto, anche dire sempre tutta la verità non è detto sia una buona idea, specie se quella che si racconta è una storia di sofferenza. Insomma, non possiamo cavarcela con l’idea che dire la verità basta.
Il criterio è il discernimento dell’adulto: a volte ci sono ragazzi che hanno la capacità di sopportare verità anche violente, altre volte, invece, magari è meglio non dire tutto. Di sicuro, però, dire qualcosa in più protegge dalla domanda più difficile che può nascere in un bambino adottato: “Cosa ho fatto di male, io, per essere stato abbandonato?”. Se la posta in gioco è questa, una verità anche dura può essere d’aiuto.

Però ci può essere il figlio adottivo che non ne vuole sapere di scoprire la sua origine?

Certo, e anche questa è una scelta da rispettare. Durante l’analisi dei dati emersi con la ricerca, uno degli elementi più evidenti è stato la grande variabilità delle storie dei figli adottati. Per alcuni è impossibile cercare le proprie origini, lo rifiutano. Ma anche questo è un modo di gestire la domanda: dicendo “non mi interessa ciò che è stato prima”. Ed è legittimo. Magari io, come genitore, penso che avrei il desiderio di conoscere la mia storia passata, ma se trovo un figlio che preferisce non chiedere nulla è giusto accompagnarlo in quella che è la sua modalità di mettere insieme le sue ferite e le sue risorse.

Per chi, invece, vuole andare in cerca delle proprie origini, cosa può significare questa decisione?

Spesso questa informazione si configura come un viaggio, sia ideale, sia reale, nel Paese d’origine. Il mio invito è di accompagnare fisicamente i propri figli: la ricerca delle origini non può essere fatta da soli, serve un compagno di viaggio, che sia il genitore, un fratello, un amico…
Ma c’è un altro aspetto molto interessante relativo alla ricerca delle origini emerso dalla ricerca.

Quale?

Che la ricerca delle origini non riguarda solo padri e madri, ma un più generale senso di appartenenza. Sono dei cerchi concentrici che si allargano intorno al ragazzo: va bene i genitori, ma se avessi dei fratelli? Dei compagni di scuola con i quali ho studiato da piccolo?  È la ricerca di un popolo di origine, perché appartenere a una storia significa appartenere a un sistema di relazioni e una storia di popolo.

Possiamo dire che è stata una ricerca molto arricchente anche per lei che l’ha curata?

Certamente. È stata una bella opportunità di relazionarsi con il tema e addentrarsi in una complessità per la quale non esistono procedure. La relazione educativa è una sfida: bisogna guardare in faccia il figlio e fare i conti i conti anche con le proprie paure. Sicuramente è faticoso, ma è uno spazio di fatica che restituisce verità alle relazioni familiari.
Perché la famiglia che funziona bene non è quella in cui sembrano non esserci problemi, ma quella in cui si è in grado di “restare dentro i problemi” fidandosi delle relazioni.