E’ naturale che un bambino adottato pensi ai propri genitori biologici?

Buongiorno Ai.Bi.

Vi scrivo per chiedervi un chiarimento sulla vostra linea in relazione a una tematica che ritengo importante per chi è stato adottato, come me, attraverso un’adozione internazionale: la ricerca delle informazioni sulle origini.

Ho letto con piacere l’articolo sulla bambina nepalese che, dopo il terremoto che ha sconvolto il suo Paese di origine, ha deciso di realizzare e vendere piccoli manufatti in modo da poter inviare una piccola somma di denaro ai suoi connazionali. A un certo punto nella letterina che riportate, la bambina scrive: “ho pensato se i miei genitori del Nepal stavano bene o se gli era successo qualcosa di brutto”.

È ovvio che a una bambina, in una tale situazione, venga spontanea una domanda del genere. Ma mi domando se non sia opportuna aiutarla a liberarsi di un pensiero del genere. Non certo per incoraggiarla all’egoismo: anzi, la sensibilità, soprattutto in occasione di tragedie come quella del Nepal va sempre apprezzata. Ma perché temo che, se a 9 anni la bambina pensa ai suoi “genitori del Nepal”, tra qualche anno potrebbe chiedere di andarli a ritrovare, rischiando di incappare in una grave delusione, qualora essi non ci siano più o non vogliano incontrarla.

Non vorrei sembrarvi polemico, ma mi piacerebbe sapere come la pensate a riguardo.

Grazie,

Alvaro

 

 

marco-carrettaCaro amico,

ti rispondo da figlio adottivo. La ricerca delle informazioni sulle origini, per un figlio adottivo, è in effetti un tema sempre delicato. Credo che occorra fare una distinzione preliminare.

Un conto è andare alla ricerca delle proprie origini culturali: ovvero, informarsi sulla società in cui si è nati, cercare di conoscere la cultura dei propri antenati. E su questo non c’è assolutamente niente di male. Io stesso sarei curioso di andare in Marocco a visitare i luoghi in cui sono nato e ho trascorso i primi anni in istituto. E ho accompagnato, per esempio, una mia amica, anche lei figlia adottiva, in Bolivia, il suo Paese di origine, dove siamo stati ospitati da una televisione locale proprio per confrontarci sul tema dell’adozione internazionale.

Altro discorso è la ricerca dell’identità dei propri genitori biologici. Fin da piccolo mi sono sentito chiedere dai miei amici e compagni di scuola se avessi voglia di conoscere i miei “genitori veri”. Ho sempre risposto che io i genitori “veri” li ho ogni giorno con me: sono quelli che mi hanno adottato. E non ho bisogno di andare a cercarne altri, non ne sento la necessità. A tutti quei ragazzi adottati come me che si impegnano a fondo nella ricerca dell’identità dei loro genitori biologici, consiglio di impiegare quel tempo per un’altra missione: quella di promuovere l’accoglienza in tutti i sensi, a beneficio di quei bambini e di quei giovani che sentono un vuoto dentro di sé. Lo stesso consiglio darei anche alla bambina nepalese.

La quale, sia chiaro, non ha fatto nulla di male. È vero che ha lasciato il Nepal quando era piccolissima e che ora è perfettamente integrata nella società italiana. Ma ciò non vuol dire che debba dimenticare di essere di origine nepalese. È del tutto normale che sia rimasta impressionata dalla tragedia del terremoto che ha sconvolto il suo Paese e che, nel suo piccolo, abbia cercato di fare qualcosa per aiutare quella popolazione. Una popolazione di cui evidentemente fanno parte anche i suoi genitori biologici. Non c’è niente di male a rivolgere un pensiero anche a loro. Anche io, pur pensandola come ti ho detto sulla ricerca delle origini, spero sinceramente che l’uomo e la donna che mi hanno generato, se ci sono ancora, stiamo bene. Tutto qui.

Grazie per la tua riflessione,

 

Marco Carretta

Coordinatore nazionale di Ai.Bi. Giovani