Lampedusa: «Mio figlio gridava poi è sparito tra le onde»

«Ho perso tutta la mia famiglia. Mia moglie e il mio figlio sono morti tra le onde. Il mio bambino aveva solo tre anni».

Le parole dell’uomo sono macigni. Ma il volto, il suo volto, è anche più difficile da sostenere: gli occhi svuotati, l’espressione stravolta. Chissà come brillavano, prima dell’altra notte: quando quei due erano riusciti a partire, col bimbo per mano, nel cuore l’unico, incolpevole desiderio di costruire per lui un futuro migliore. «Eravamo in mare da tre giorni – l’uomo interrompe il flusso di pensieri –, il barcone imbarcava acqua e quando è arrivata la nave italiana ci siamo fatti prendere dal panico. Ci siamo agitati e ci siamo capovolti». Silenzio, altri pensieri, le ultime sillabe in un soffio incomprensibile.

Il suo racconto è il primo, forse il più tragico degli altri cinquantadue fatti ieri a Lampedusa dai superstiti della tragedia nel Canale di Sicilia. Sono ombre e fantasmi, l’unico segno di vita il tremore che non li abbandona, anche se dal mare sono stati estratti ormai da ore. Il numero dei migranti partiti dalla Libia e di varie nazionalità africane non è certo. Secondo alcuni sarebbero 300, forse 350, o 370, poi c’è chi rimane zitto e muove le dita, non ha mai saputo contare.

Karim, somalo, mostra un ematoma al sopracciglio sinistro e fa il gesto del pugile. In acqua si è dovuto difendere da due compagni di viaggio che non sapevano nuotare e che si sono aggrappati a lui: «Non so se loro ce l’hanno fatta, era buio, non li ho neanche visti in faccia. Io l’ho scampata». Karim dice di avere 17 anni perché questo gli procurerebbe qualche vantaggio, ma prima di dire che è nato nel ’94 ci pensa un po’. In verità, di anni ne dimostra cinque o sei di più. Parla un briciolo di inglese e uno di italiano, le poche parole della nostra lingua le ha apprese dal padre: “Buio” e “acqua” ricorrono continuamente nel suo discorso. Che parte dalla sua fuga rocambolesca dalla Somalia, fa tappa in Sudan e poi in Libia.

Accanto a lui un altro fantasma. Viene dal Camerun, dice di essere rimasto in Libia almeno due anni a fare l’imbianchino e quando è divampata la guerra gli avrebbero proposto di combattere contro i ribelli. Ma lui – racconta – è riuscito a trovare un barcone per partire pagando 1.200 dollari sia per lui, che per la sua fidanzata, 24 anni, e un suo amico: «Siamo partiti, poi è cominciato il cattivo tempo. Siamo caduti in acqua – dice – era un inferno. Mi entrava acqua in bocca, ma sono riuscito a rimanere a galla. C’erano almeno tre bambini e molte donne. Io mi chiamo Peter Ugo, ho 29 anni». Quando è arrivato al poliambulatorio di Lampedusa, Peter aveva due certezze: che lui era vivo e che la sua fidanzata era morta.
 La prima gli è rimasta, la seconda – unica nota positiva in una giornata che il mondo vorrebbe solo dimenticare – è svanita con lo squillo di un telefono: all’altro capo della linea c’è lei; provata, infreddolita, ma c’è, lei c’è. La voce della donna gli rimette la vita dentro: Peter salta, corre, ride.«È qui, sta bene. Grazie Italia!». Gli altri lo guardano senza dir nulla.

Poi, da una coperta termica che lascia fuori solo le braccia, un uomo che arriva dal Bangladesh agita il tubicino della flebo. Non sta male, non è ferito, ma da quando l’hanno salvato a chiunque si avvicini chiede come può d’esser rassicurato sul fatto che non lo riporteranno indietro: «Italia – sussurra -, Italia».

(Fonte: Avvenire, 7/4/2011)