Nel Paese senza mamme. Così vivono i figli delle nostre badanti

moldaviaIn Italia le donne moldave sono quasi 200mila: qui curano anziani e bambini. Ma in patria hanno lasciato affetti e famiglie. Ne parla questo articolo, che riportiamo integralmente, pubblicato sul quotidiano “il Giornale” lunedì 29 dicembre a firma del giornalista Angelo Allegri.

 

Olga ha 12 anni, i capelli neri raccolti in una coda di cavallo, veste con eleganza tutta femminile l’uniforme della scuola, camicetta bianca e gonna blu. La madre ha lasciato Hincesti, un piccolo centro a qualche decina di chilometri da Chisinau, la capitale della Moldavia, poco più di 10 anni fa. È venuta in Italia per fare la badante. Poi le è bastato un incontro sbagliato: la sua vita è finita in una notte terribile lunga una strada alla periferia di Bergamo.

Olga non ne parla, una volta al mese va al cimitero per salutarla. Per il suo futuro ha già un progetto chiaro: “Quando sarò grande andrò anch’io in Italia”. Se le si chiede il perché risponde quasi sorpresa: “Perché è bellissima, lo sanno tutti”. Oggi vive con i suoi nonni. E fuori dalle poche vere città del Paese la case della campagna moldava si assomigliano tra loro: piccoli edifici con il tetto di legno, circondate da malmesse palizzate fatte di assi accostati. Nei cortili, dove il fango di un inverno ancora senza neve arriva alle caviglie, corrono qua e là le galline. Nell’angolo più lontano, ma solo se il padrone di casa non ha problemi economici, c’è la porcilaia. Per scaldarsi si una la stufa a legna sistemata nella stanza dove si svolge la vita familiare. In pochi hanno l’acqua corrente: ogni gruppo di case ha il suo pozzo scavato ai margini della strada, spesso abbellito con preziose decorazioni in legno.

La vita assomiglia a quella delle campagne italiane di un secolo fa. Ma tutti, anche i bambini, soprattutto i bambini, conoscono l’Italia di oggi. E nella mente dei più piccoli il nostro Paese è una creatura con due volti: ingoia i loro affetti e li costringe a una vita di dolorose partenze e incerti ritorni. Ma è anche il Paese di Bengodi dei racconti familiari: tutti sono ricchi, le strade asfaltate e le case bellissime, anche quelle delle periferie più lontane.

La Moldavia è la nazione più povera d’Europa: il reddito pro capite supera di poco i 2.200 dollari l’anno, meno di Bolivia o Filippine. La malconcia Italia ha un reddito che sfiora i 34mila. Negli ultimi 15 anni il Paese ha subito una sconvolgente mutazione demografica e sociale, come se fosse stato colpito da una bomba atomica di quelle più moderne, che lasciano intatti gli edifici ma colpiscono le persone. Nel 2000 gli abitanti erano quattro milioni e mezzo. Oggi sono un milione in meno. Quasi il 25% della popolazione se ne è andato, quasi un abitante su quattro. Come se in Italia sparissero da un giorno all’altro 15 milioni di persone. Da queste parti era già successo qualcosa di simile tra il 1944 e il 1945. Le truppe di Stalin avevano riconquistato il Paese, che nel 1940 si era riunito alla Romania. Migliaia di persone erano state uccise, centinaia di migliaia deportate in Siberia, centinaia di migliaia erano scappate.

Negli ultimi anni l’emorragia è stata inarrestabile, chi poteva è partito: verso gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, ovunque. In maggioranza gli uomini sono emigrati in Russia o in Israele, dove possono lavorare nell’edilizia o nell’industria. In Italia di moldavi ne sono arrivati almeno 200mila, forse di più, anche se non è facile dare cifre precise perché molti hanno passaporto romeno e sfuggono alle statistiche. Il 70/80% sono donne, badanti o collaboratrici familiari. Tutte hanno lasciato in patria una famiglia. Tutte o quasi un figlio. “Per ogni badante in più in Italia, c’è una madre in meno in Moldavia”, ha detto il vescovo cattolico di Chisinau, Anton Cosa. Le vittime dell’esodo sono i bambini che qui chiamano “orfani sociali”: hanno i genitori, ma a migliaia di chilometri di distanza. Sono affidati a nonne, zie, madrine o, capita spesso, al buon cuore dei vicini di casa. Il più premiato film moldavo degli ultimi anni, Arrivederci, di Valeriu Jereghi, racconta la storia di Jon, un bimbo di sette o otto anni che i genitori emigrati hanno lasciato ai vicini. Nella prima scena la nuova maestra gli chiede se sa indicare dove vive la sua mamma sulla cartina dell’Europa appesa alla parete della classe. Jon si alza e con la mano tocca l’Italia. Ma il contatto si trasforma in una interminabile e commovente carezza.

Carpinemi è un paese di campagna come tanti altri. Un susseguirsi di minuscole frazioni collegate da una strada tutta buche e fango. Sui muri neppure intonacati di un garage un cartello fa pubblicità a una linea di autobus: un paio di giorni di viaggio e si arriva comodamente a Roma, Viterbo e Monterotondo. Qui vent’anni fa c’erano 13mila abitanti, oggi ne sono rimasti 8mila. Nella quarta classe della scuola elementare i bambini si chiamano Oxana e Georghe ma anche Giovanni e Matteo. Alcuni sono nati in Italia, altri vi hanno abitato per qualche anno; più o meno la metà ha almeno un genitore all’estero. Anche la maestra, Agata, ormai vicina alla sessantina, ha fatto per anni la badante da noi. La sua è una storia simile a tante altre della “generazione perduta”.

Alla fine degli anni Novanta, dopo una decina d’anni di precario equilibrio post-comunista, l’economia moldava precipitò in caduta libera. Nessuna azienda o quasi fu più in grado di pagare gli stipendi con regolarità. Chi voleva poteva portare a casa come compenso parte di quanto prodotto. Un problema suo riuscire a venderlo. “Io facevo la maestra già allora, mio marito era professore di fisica al liceo”, racconta Agata. “Venivamo pagati sì e no ogni sei mesi. I nostri figli stavano finendo la scuola, dovevano vivere e iniziare l’università”. Così Agata decise di partire. “Allora il viaggio era un’avventura rischiosa. La prima volta comprai un visto a Chisinau, la seconda un passaporto russo a cui fu cambiata la fotografia. Ma tornare era difficile. Bisognava pagare i debiti per il viaggio, e poi se si tornava bisognava ricominciare da capo. Partivamo e non sapevamo quando avremmo rivisto i figli”. Oggi le cose sono cambiate: in molti Paesi, Italia compresa, i primi immigrati clandestini sono stati regolarizzati e possono tornare a casa in vacanza. Da qualche mese i moldavi non hanno neanche più bisogno del visto per entrare nell’Unione europea. “La lontananza rimane. Ma oggi c’è anche la tecnologia. Per esempio i programmi che permettono di videotelefonare via internet. È un modo per veder crescere i figli”. Agata si volta verso la sua classe. “Bimbi, quanti di voi conoscono Skype?” Si alza una selva di mani. “Qui da noi i bambini imparano prima a usare Skype che a scrivere”.

Quando i suoi genitori sono partiti per Roma Ionela non aveva ancora iniziato la scuola. È rimasta in Moldavia con una zia che le voleva bene. Ma a cinque anni non è riuscita a capire perché la sua famiglia era finita. Fino ad allora era stata una bambina simpatica e socievole, all’improvviso ha smesso di parlare. Per mesi ha fatto scena muta alle telefonate dei genitori, aggiungendo angoscia alla loro angoscia. C’è voluto tempo per strapparle un sì o un no. C’è voluto altro tempo per farla sorridere. Tempo e una notizia: il lavoro di papà e mamma in Italia andava bene, erano riusciti a risparmiare quello che si erano prefissi. Presto sarebbero tornati e avrebbero comprato un appartamento a Chisinau. Quando Ionela ha visto la nuova casa ha avuto la prova che non l’avrebbero imbrogliata di nuovo e la famiglia si sarebbe riformata. La sua vita è ricominciata. Oggi Ionela è una brillante liceale. Ma non per tutti gli emigrati viene il tempo del ritorno. “Chi è rimasto deve fare i conti con un vuoto affettivo che i soldi e i pacchi regalo che arrivano dall’estero non possono riempire”, spiega Cristina Nazilu, psicologa del liceo Dante Alighieri di Chisinau. C’è una terra di nessuno, i ragazzi tra i 18 e i 21 anni. “Capita che abbiano vissuto senza genitori per  15 anni, non sanno che cosa fare della loro vita. C’è chi raggiunge la madre e il padre ma non riesce ad adattarsi a un nuovo Paese, a una nuova lingua. E allora torna, definitivamente tagliato fuori dagli affetti”. A dominare è il senso di colpa: quello delle madri che hanno lasciato i figli. Ma a volte anche dei figli nei confronti delle madri, costrette, per garantire loro un futuro, ad abbandonare la propria casa e il proprio Paese. “Qui di ragazzi di strada come in Romania non ce ne sono”, spiega don Cesare Lodeserto, che da anni guida la fondazione Regina Pacis di Chisinau. “Ma è fatale che con la lontananza i legami si allentino. Non aiuta il fatto che il vincolo matrimoniale è fragilissimo: il 36% dei matrimoni finisce già dopo il primo anno”. Per questo si parla già di una seconda “generazione perduta”: dopo quella di chi è stato costretto a partire, quella di chi è rimasto. Da solo.

“Cercavamo manodopera e sono arrivate persone”. L’ha scritto lo scrittore svizzero Max Frisch all’inizio degli anni Sessanta, quando eravamo noi italiani a salire sui treni della speranza diretti in Nord Europa. Persone. Con le loro speranze e i loro progetti. Come quelli di Vlad, 18 anni compiuti. “Mia madre è partita per Torino quando avevo 7 anni”, racconta in un bell’italiano con cadenza piemontese. “I miei avevano divorziato e sono rimasto con la mia madrina di battesimo. Non mi ci trovavo e un giorno sono scappato a casa dei miei nonni. Un’estate mia madre è tornata per le vacanze e mi ha detto: a settembre vieni con me in Italia. Avevo 13 anni. Mi ricordo le prime due settimane e Torino: lei lavorava tutto il giorno e io passavo ore a guardare alla tv cartoni animati di cui non capivo una sola parola”. Poi le scuole medie e il diploma da cuoco. “Io e la mia classe abbiamo fatto da mangiare al Torino film festival. Una faticaccia, ma ho imparato a fare le crespelle per tremila persone”. Da qualche settimana Vlad è tornato in Moldavia, a Hincesti. “A giugno darò la maturità e poi mi iscriverò all’università: economia e commercio. Voglio fare qualche cosa per questo Paese. E ho un progetto: mio nonno ha della terra, alberi di prugne. Ma quando le vende prende pochi centesimi al chilo. A Torino mi sono fatto spiegare come funziona il credito bancario e sto studiando di comprare un essiccatore per la frutta. Sul mercato le prugne secche valgono 20 volte quelle fresche. È un impegno e devo fare bene i conti, ma so che posso farcela”. Il futuro della Moldavia, e non solo, dipende anche da lui.