Dare un nome a chi era invisibile: il patto silenzioso dell’adozione

“Quando un bambino adottato ti guarda per vedere se ci sarai ancora domani, non sta chiedendo una risposta. Sta chiedendo un patto.” La testimonianza, pubblicata su VITA.IT, di un padre che racconta l’adozione come atto di fede e ribellione

In questa lettera aperta, pubblicata su VITA.IT un padre racconta la sua esperienza con due dei suoi tre figli, adottati insieme alla moglie Ilaria. Le sue parole non cercano compassione né applausi: sono un’intima dichiarazione di coraggio e tenerezza. Perché scegliere di accogliere è accettare di non avere tutto sotto controllo. È dire “ci sarò” anche quando tutto trema. È credere che una storia interrotta possa ricominciare, e che una casa possa nascere dove prima c’era solo silenzio.

La lettera aperta di un padre adottivo

C’è chi adotta un cane, chi una pianta in via di estinzione, chi una tigre siberiana a distanza. E poi ci sono loro: quelli che adottano un piccolo batuffolo di carne e sogni, un esserino sgualcito dal mondo ma ancora capace di sperare. Non per moda, né per mitomania. Ma per una chiamata muta, che non ti lascia scappare. Mi tornano in mente le immagini dure e bellissime di Valerio Bispuri, quei bambini incatenati nei corridoi di un orfanotrofio di Karachi, il Sirat ul Jannah. Incatenati perché fragili, perché “sbagliati”, perché troppo bambini per questo mondo incappucciato. Mi attraversa l’immagine di quanto siamo leggeri come un platano, noi che le catene non le vediamo – anche se spesso ce le portiamo dentro. Invisibili, educate, ben potate: ma sempre catene. E mi si affaccia alla mente un’altra figura: quella dei genitori che decidono di fare spazio a un bambino che non hanno generato, ma che sentono come parte di sé. Genitori che non usano il sangue come metro, ma il battito.
L’adozione è una dichiarazione di guerra alla logica dell’equilibrio: quella che vorrebbe ogni slancio del cuore proporzionato, ogni scelta giustificata, ogni legame tracciabile su un albero genealogico. E invece no. È una ribellione gentile. È il gesto di chi guarda un vuoto e non scappa, ma ci costruisce una casa. O magari una palafitta: ben piantata sopra il mare increspato di cuori spaventati. Farsi famiglia per qualcuno è come aprire la porta di casa a un terremoto: ti rovescia gli arredi segreti del tuo dentro, fa crollare i muri delle abitudini, riscrive l’architettura ordinata dei tuoi giorni. Ma in mezzo a quel disordine, sboccia qualcosa di inatteso: la meraviglia. Non quella eclatante, ma la più fragile: un sorriso che non ti era dovuto, una fiducia guadagnata, una buonanotte sussurrata con la voce rotta e le dita intrecciate. Quello adottivo non è un amore “in più”. È una forma di legame “a prescindere”. Non ama nonostante, ma attraverso: le paure, le notti bagnate di sogni interrotti, le parole nuove da imparare, le carezze da meritarsi. Quando un bambino adottato ti guarda per vedere se ci sarai ancora domani, non sta chiedendo una risposta. Sta chiedendo un patto. Ci sarò. Quando alzerai difese. Quando spegnerai la luce per non vedere. E ci sarò anche nei silenzi più lunghi, quelli in cui speri che qualcuno resti. Io non me ne andrò. Perché stringere a sé una vita che non ti somiglia non è solo un gesto di cura radicale. È un atto di fede. È credere che una storia spezzata possa delicatamente ricomporsi. Che un legame non abbia bisogno di geni per diventare linfa. Che l’amore, quello vero, non chiede somiglianze: le costruisce. In fondo, la scommessa su una storia nuova, è l’arte di dare un nome a qualcuno che credevi invisibile. E quel nome, anche se non lo urli mai in piazza, lo porti tatuato nei capillari della circolazione: silenzioso, ma vitale. Un nome segreto che ha il suono di una fiducia ritrovata. E che risuona, ogni volta, a quella cosa semplice e scandalosa che chiamiamo casa.

Informazioni e domande sull’adozione internazionale

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