Noi tutti, ma proprio tutti, siamo predestinati a un unico destino: diventare santi

ognissantiIn occasione della festività di Tutti i Santi, che cade come da tradizione il 1° novembre, la riflessione del teologo don Maurizio Chiodi prende spunto dai brani del libro dell’Apocalisse di san Giovanni (Ap 7,2-4.9-14), della prima Lettera di san Giovanni apostolo (1Gv 3, 1-3) e del Vangelo secondo Matteo (Mt 5, 1-12a).

 

Il mese di novembre è tradizionalmente vissuto e sentito come un tempo ‘triste’, autunnale – e non per niente domani è la commemorazione di tutti i fedeli defunti! –, un tempo quindi dedicato al ricordo, pieno di nostalgia e di dolore per le persone care che oggi non ci sono più, qui, tra noi.

Ecco, questo mese in realtà comincia con una festa luminosa e ricca di luce, di gioia, di bellezza, di splendore, di speranza. E non a caso.

Prima di commemorare tutti i defunti, pregando per loro, la liturgia ci fa celebrare la festa di Tutti i santi, come a ricordarci quale è la chiamata e il dono offerto a tutti: il dono della santità.

A questo noi tutti, ma proprio tutti, siamo predestinati: a diventare santi.

Che cosa questo significhi, lo dice, a modo suo, ciascuna delle tre letture, e anche il salmo responsoriale, che abbiamo proclamato in questa bella festa.

San Giovanni, nella seconda lettura, ci annuncia la speranza, forte e bella, che ci caratterizza come cristiani: «chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro».

Un cristiano non può non sperare, non può non essere uno che crede in un compimento, una promessa di luce e di pace, di bene e di vita, che va al di là di ogni sua immaginazione e che tuttavia non è, per questo, meno concreta.

La speranza è cosa ben diversa dall’ottimismo ingenuo di chi si ostina a non vedere i problemi, le difficoltà, le insidie, i dubbi, le fatiche, le prove.

La speranza è cosa ben diversa dalla superficiale leggerezza di chi preferisce vivere nel presente, spremendolo con intense emozioni, nascondendo a se stesso la paura di un futuro che lo spaventa e che non ha il coraggio di guardare negli occhi.

La speranza è più grande di ogni nostro desiderio, ma è il compimento, donato, per grazia, di ogni nostro desiderio.

L’apostolo Giovanni riassume così la nostra speranza: «noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato».

Noi dunque siamo amati da Dio come un Padre ama i suoi figli più cari. Pensiamo, tra tutte le immagini del Nuovo Testamento, alla splendida parabola del Padre misericordioso, per comprendere qualcosa di questa paternità di Dio. Tanto il figlio scapestrato quanto il figlio che gli rimane in casa, questo Padre li ama con un amore direi incompreso, dall’uno e dall’altro, in modo diversi.

Ciascuno di noi è amato dal Padre con uno sguardo unico, di misericordia, di predilezione, di accoglienza e di grazia ‘incondizionata’.

Ecco, tutto questo è «fin d’ora»!

Eppure, ci attende, nel futuro, a partire da quello che già sperimentiamo, una sorpresa che non possiamo rappresentarci e comprendere, qui, sino in fondo: noi, il Padre, nella pienezza dell’eternità, «lo vedremo così come egli è».

Ma non lo vedremo soltanto, come può succedere a uno spettatore di una partita di calcio o di un bel film o di uno spettacolo naturale bellissimo. In questo caso, il vedere ci coinvolge solo fino ad un certo punto: vediamo, siamo commossi, colpiti, magari arriviamo a piangere o a esultare per la gioia, ma quello che vediamo rimane esterno a noi.

Invece, non sarà così, quando ‘vedremo’ Dio. Sarà molto più di un semplice ‘vedere’: «quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui».

Ecco: il nostro vedere sarà come un entrare, un diventare partecipi, un venire trasformati, trasfigurati: «saremo simili a lui».

Questo noi lo comprendiamo bene proprio nella relazione di amore: quando siamo amati, per grazia, quando siamo accolti con semplicità e benevolenza, questa ci trasforma, ci dà speranza, ci dà forza, irrobustisce le ginocchia vacillanti e le mani incerte!

Questa è la speranza che ci ‘purifica’ e cioè ci rende puri, trasparenti, limpidi, integri, senza colpe e senza pesi, non perché non li abbiamo, ma perché è Dio che, nell’amore, ci perdona e ci alleggerisce il cammino.

E qui siamo rimandati al Vangelo, in particolare alla sesta beatitudine: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio». La seconda lettura è il più bel commento a questa beatitudine! E questa beatitudine è come un diamante, incastonato con altri diamanti, le altre beatitudini, in quel preziosissimo anello che è la nostra fede.

Le beatitudini sono otto parole cariche di speranza, accompagnate e seguite da una nona, una parola che Gesù rivolge a tutti coloro che sono disposti a subire ogni male «per causa» sua. Le beatitudini sono tutte parole che riguardano il futuro di speranza che ci attende: « saranno consolati;   …  avranno in eredità la terra; … saranno saziati; … troveranno misericordia; … vedranno Dio; … saranno chiamati figli di Dio!» – anche in questa beatitudine ritorna quanto diceva san Giovanni nella seconda lettura -. Sono, queste, parole bellissime che annunciano una pienezza di vita, un compimento: la consolazione, l’eredità di una terra che sarà dimora di pace e di giustizia, la sazietà …

Così viene descritta, da Gesù, la beatitudine: è un essere sazi di consolazione, di perdono, di grazia, di misericordia. Amati come figli di un amore che si manifesterà senza veli, senza ombre, senza ambiguità.

Ma anche nel Vangelo, come nella seconda lettura, questa speranza riguarda il futuro, il futuro di Dio, proprio perché è già presente. Altrimenti sembrerebbe pura utopia, illusione a buon mercato, pseudo-consolazione.

La prima e l’ultima delle otto beatitudini di Matteo, infatti, contengono la medesima formula, la stessa speranza, nel presente: «perché di essi è il regno dei cieli». Questa parola è al presente: la speranza si incarna, fin da ora, nella nostra vita.

Ed è una speranza nutrita di cielo, che è immagine di Dio. «Regno dei cieli», in Matteo, significa ‘regno di Dio’. Questo regno di amore, di consolazione, di grazia, di misericordia, è fin d’ora presenta nella nostra vita. All’unica condizione che noi la accogliamo e cioè che ci fidiamo di questa promessa di Dio, che – lo sappiamo! – è l’Unico fedele!

L’Apocalisse, la prima lettura, ha espresso molto bene questa ‘tensione’ tra la la speranza futura e la fiducia presente. Il profeta vede l’enorme numero simbolico («centoquarantaquattromila» = 12 per dodici per mille: numero perfetto di totalità!) di coloro che hanno impresso sulla fronte il sigillo, il ‘marchio’, il ‘carattere’ di Dio, che hanno le vesti candide, che stanno davanti al trono di Dio e cantano la sua lode, a una sola voce, una voce comune, potente.

Ma tutti questi, dice uno degli anziani a Giovanni, sono coloro «che vengono dalla grande tribolazione» e che hanno reso «le loro vesti …  candide nel sangue dell’Agnello».

Questo sangue, che, versato per amore, non ha sporcato le vesti di questi testimoni, di questi santi, al contrario, le ha rese candide.

Questi ‘santi’ non hanno avuto paura delle grandi tribolazioni, delle prove, delle fatiche, perché in esse hanno gustato la speranza che nasce dall’amore.