Qual è il senso, oggi, della categoria “special needs” nelle adozioni internazionali?

Nella prassi dei Tribunali per i Minorenni, i decreti vincolati emessi per le coppie disponibili all’adozione pongono spesso dei “paletti” sui minori che possono essere accolti che creano, di fatto, una discriminazione. Non sono forse proprio i bambini con più “bisogni” quelli che hanno maggiore necessità di essere adottati e avere una famiglia?

Nel suo recente intervento alla Camera, la Ministra Roccella ha rinnovato l’intenzione di aumentare gli aiuti in favore delle coppie che adottano minori cosiddetti “special needs”, ovvero, secondo la definizione del Permanent Bureau dell’Aia, di minori affetti da problemi di comportamento o da traumi oppure con incapacità fisica o mentale oppure, ancora, con età superiore ai 7 anni o, infine, che fanno parte di fratrie. Sarebbero, in sostanza, i minori “più bisognosi” di essere adottati… e anche urgentemente.
L’idea di un maggiore supporto economico, dunque, è senza dubbio da accogliere con favore, ma senza nascondere che, proprio relativamente agli “Special needs” esiste un problema non da poco, legato ai decreti vincolati, una prassi che ormai da qualche tempo viene mantenuta da diversi Tribunali per i minorenni, che chiedono alle coppie interessate all’adozione di specificare la propria eventuale disponibilità rispetto all’accoglienza di bambini con determinate caratteristiche e con eventuali problemi.

Special needs e decreti vincolati:due realtà inconciliabili

La prassi si spinge al punto che in alcuni Tribunali l’idoneità all’adozione internazionale viene rilasciata con la specificazione che l’accoglienza, per esempio, debba ritenersi limitata – essendo tale il volere delle coppie – a minori “esenti da problematiche di disabilità grave” oppure “che presentano problematiche di patologie lievi, risolvibili”, o, ancora: “In età prescolare e che non presentino problemi sanitari che ne possano compromettere l’autonomia in età adulta“.
È evidente, dunque, come nel sistema delle adozioni internazionali esista ancora un tentativo di classificazione delle situazioni in cui si trovano i minori. In particolare nell’ambito della disabilità, i bambini sono virtualmente raggruppati a seconda della “graduazione” dei propri handicap.
Il fatto è che tali decreti, oltre a essere difficilmente utilizzabili all’estero, creano una discriminazione sulla base di condizioni personali la cui evoluzione è ardua da “misurare” in base a informazioni fornite dall’estero con criteri variabili da Paese a Paese.
Ma, al di là dello specifico “utilizzo” ai fini dell’adozione, come si pongono queste “classificazioni” rispetto al noto principio del nostro ordinamento (Costituzione, art.3) che vieta in maniera assoluta qualsiasi discriminazione, dunque anche – ma non solo – in danno delle persone disabili, al fine di favorire quanto più possibile anche per tali soggetti il pieno godimento dei diritti civili, politici, economici e sociali?
La domanda è di particolare interesse se si considera che la stessa CAI, nell’ultimo rapporto pubblicato relativo alle adozioni realizzate nel 2021, ha reso noto che il 62,5% dei bambini adottati manifesta uno o più special need; tra questi, il 30,1% riporta “traumi, problemi comportamentali, incapacità fisica e mentale” (che peraltro a propria volta ben nell’88,2% dei casi si accompagnano a una età inferiore ai sette anni).

Lo status di “special needs” di fronte alla legge

Il nostro ordinamento (Costituzione, art.3) vieta in maniera assoluta qualsiasi discriminazione, dunque anche – ma non solo – in danno delle persone disabili, al fine di favorire quanto più possibile anche per tali soggetti il pieno godimento dei diritti civili, politici, economici e sociali.
Anche per la legge sulle adozioni (L.184/1983 art.1) “Il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia è assicurato senza distinzione di sesso, di etnia, di età, di lingua, di religione e nel rispetto della identità culturale del minore e comunque non in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento”.

D’altra parte, nel nostro ordinamento – dal punto di vista della legge la manifestazione della disponibilità degli adottanti per l’accoglienza di minori con determinate caratteristiche appare finalizzata a creare un canale preferenziale per supportare questa scelta e non per evitare a monte che siano accolti alcuni bambini.
Così l’art. 6 della stessa legge 184/1983, che per le adozioni, sia nazionali che internazionali, stabilisce che “costituisce criterio preferenziale ai fini dell’adozione l’avere già adottato un fratello dell’adottando o il fare richiesta di adottare più fratelli, ovvero la disponibilità dichiarata all’adozione di minori che si trovino nelle condizioni indicate dall’articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n.104, concernente l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”.

Discriminazione diretta e discriminazione indiretta

E ancora: nella legge n. 104/1992 è stabilito che non può essere praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità e che sono considerati come discriminazioni le molestie e quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi connessi alla disabilità, che violano la dignità e la libertà di una persona con disabilità, ovvero creano un clima di intimidazione, di umiliazione e di ostilità nei suoi confronti. In questo quadro si è già da tempo delineata la definizione di discriminazione diretta e indiretta, e cioè:
– si ha discriminazione diretta quando, per motivi connessi alla disabilità, una persona venga trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata una persona non disabile in situazione analoga
– si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono una persona con disabilità in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone.

A livello internazionale, la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea, riconosce ai disabili e ai portatori di handicap il diritto di godere dei diritti al pari di ogni altro individuo (in particolare articoli 1, 21 e 23). Inoltre, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989 (CRC), ratificata dall’Italia nel 1991 con legge n. 176, stabilisce che “gli Stati riconoscono che i fanciulli mentalmente o fisicamente handicappati devono condurre una vita piena e decente, in condizioni che garantiscano la loro dignità, favoriscano la loro autonomia e agevolino una loro attiva partecipazione alla vita della comunità.
In questo quadro vale la pena ricordare che l’Italia, con legge n.18 del 3 marzo 2009 ha ratificato e resa esecutiva la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, che rafforza i diritti delle persone e dei bambini disabili. Secondo tale Convenzione “Gli Stati Parti riconoscono che tutte le persone sono uguali di fronte e secondo la legge ed hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a uguale protezione e uguale beneficio della legge” (articolo 5).

L’adozione è uno strumento di solidarietà sociale e di cooperazione alla sviluppo

Senza dimenticare che l’adozione è uno strumento di solidarietà sociale e di cooperazione allo sviluppo (cfr. Cassazione a Sezioni Unite n. 13332/2010) e che è doveroso considerare che ormai da anni si è chiaramente delineato, anche nella giurisprudenza, un quadro che vede l’individuo nella sua dimensione evolutiva, tanto più chiaramente quando si parta di minorenni. La disabilità e gli handicap non possono essere più visti come menomazioni definitive, assolute e oggettivamente ostacolo al pieno godimento dei diritti della persona.
Siamo ormai in un sistema in cui la natura discriminatoria degli atti e dei comportamenti umani non dipende tanto dall’elemento soggettivo di colui che compie l’atto o tiene il comportamento, e quindi dalla volontà di discriminare di chi agisce, né dal livello di percezione soggettiva che il disabile ha avuto della portata delle condotte altrui, bensì dalle conseguenze che detto atto o comportamento produce in termini di disparità di trattamento. Tutte le volte in cui di fatto le persone disabili o con handicap si trovano per qualunque ragione a non godere pienamente e in condizioni di parità e uguaglianza dei diritti riconosciuti a tutte le persone, sorge un “interesse legittimo” alla valutazione e applicazione di possibili soluzioni per ristabilire giustizia.

Non sono forse gli Special Need i bambini che hanno più bisogno di una famiglia?

I diritti delle persone disabili, e in particolare dei minorenni disabili, devono prevalere su ogni altra esigenza contraria al superiore interesse del minore (art.3 CRC, art. 12 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea).
È davvero interesse dei bambini in attesa di adozione che ne vengano stigmatizzate le caratteristiche personali al momento della disponibilità all’adozione perché siano esclusi dalla possibilità di essere abbinati a una coppia? A quali esigenze risponde realmente questa prassi di limitare le adozioni all’immagine di bambini piccoli e futuri adulti esenti da problematiche? Sono davvero idonee le coppie che vengono dichiarate idonee con strette condizioni su chi vogliano accogliere?
E soprattutto, non è forse la categoria degli “special needs”, funzionale all’individuazione dei bisogni appunto “speciali” dei bambini in attesa di adozione, uno strumento la cui finalità debba essere quella di permettere agli Stati di adoperarsi per trovare loro una famiglia anziché per evitare che la trovino?

Queste le domande da affrontare in questo nuovo anno cominciato da poco, che si spera possano trovare presto una risposta.
Come una risposta sperano di trovarla i bambini presenti nella pagina di Ai.Bi. “figli in attesa”: minori disponibili all’adozione per i quali tutte le coppie in possesso di decreto d’idoneità possono chiedere informazioni all’Associazione.