Vegliare per combattere la tentazione di far morire in noi il senso dello stupore

Alla fine del cap. 13 del Vangelo di Marco, prima dell’inizio del racconto della passione, morte e Resurrezione, alla fine di un (lungo) discorso dedicato al ritorno del Figlio dell’Uomo e alla fine dei tempi, Gesù rivolge ai suoi discepoli un invito davvero ‘accorato’.

Lo abbiamo ascoltato oggi, in poche righe: per tre volte Gesù ripete: «Vegliate! Vegliate … vegliate! … » e poi oggi aggiunge: «Fate attenzione … perché non sapete quando è il momento». E ancora: «ha ordinato al portiere di vegliare». E di nuovo: «voi non sapete …; che … non vi trovi addormentati!». Infine, con grande forza, per concludere, appena prima del racconto della sua Pasqua: «quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

Gesù lo dice anche a noi, dunque. E noi ce lo diciamo gli uni gli altri: vegliamo!  Che il Signore non ci trovi addormentati!

Facciamo attenzione … Non sappiamo quando è il momento.

Ecco, questo è l’Avvento: tempo di attesa, tempo di veglia, tempo in cui svegliarci dal sonno, che facilmente ci prende quando siamo stanchi. Il sonno è un momento importantissimo per il nostro corpo. Guai se non dormissimo! Lo sa bene chi soffre di insonnia. La notte non passa mai, quando non dormi. E quando ti alzi, la mattina, sei già stanco, vai al minimo e tutto diventa ancor più faticoso. Il sonno ci dà la possibilità di essere svegli, di vegliare. C’è un tempo per dormire e riposare, c’è un tempo per vegliare ed essere svegli.

Questo è l’invito che ci diciamo l’un l’altro in questa prima domenica di Avvento, noi cristiani: “tu, veglia! Svegliati e sta sveglio. Non lasciarti vincere dalla stanchezza, dalla noia, dalla fatica, dalla delusione, dallo scetticismo, dal sospetto, dalla disperazione, dalla paura”.

Ci sono dei tempi della vita in cui queste tentazioni, molto diverse l’una dall’altra, si fanno così forti.

Pensiamo, solo per fare un esempio, al rischio della noia: è la tentazione di far morire in noi il senso dello stupore. La noia ammazza lo stupore. Ti fa vedere tutto sempre uguale, monotono, come se nulla mai accadesse di nuovo. La noia uccide il tempo, svuota la vita, fa perdere il gusto e il sapore delle cose, degli incontri, delle relazioni, degli eventi. La noia stende una patina di polvere su tutto. Fa perdere colore e lucentezza alle cose. Tutto copre di una grigia coltre.

Al contrario, la paura ti fa vivere sempre nell’angoscia di qualcosa che ti minaccia, ti distrugge, ti può far male. La paura ti fa sentire solo, inadeguato, impotente. Ti svuota dalla fiducia. Ti mette sulla difensiva oppure, a un certo punto, ti travolge, come se stessi affogando.

Oppure pensate allo scetticismo: quando pensiamo che non possa accadere nulla di nuovo, quando pensiamo che la vita sia un ‘eterno ritorno’, quando siamo delusi e la delusione diventa il nostro pane quotidiano, quando perdiamo fiducia nel futuro, non ci aspettiamo nulla di bello e di buono … Tutto ciò contrasta con la ‘veglia’ che ci chiede Gesù.

Ma, allora, è impossibile ‘vegliare’?

Come faccio a ‘fare attenzione’, a vegliare, a non addormentare e anestetizzare la mia vita, a non lasciarmi vincere dal sospetto, dallo scetticismo, dalla paura…?  Non è che Gesù mi chiede una cosa impossibile? A me pare che qui Gesù ci riveli una profonda verità della vita.  Per questo l’Avvento è un tempo opportuno, un tempo speciale, molto bello, perché ci rivela una ‘corda’ fondamentale per suonare il canto della vita dell’uomo. Mi sembra che la prima lettura, dal profeta Isaia, quasi alla fine di un libro bellissimo, che raccoglie la voce di almeno tre profeti, l’uno successore dell’altro, sia una stupenda pagina che descrive la veglia, l’attenzione, l’attesa che Gesù ci chiede nel suo Vangelo.

È una preghiera, un’invocazione collettiva, quella del profeta. È come se Isaia raccogliesse le parole del suo popolo e poi invitasse a dirle, a ripeterle.  È come se questo grande profeta ci invitasse a farle nostre, anche oggi, rileggendo in quelle parole la nostra storia, la nostra attesa, la nostra veglia.

Questa stupenda preghiera nasce da una profonda fiducia e questa fiducia nasce dalla storia di questo popolo, Israele.

«Tu, Signore, sei nostro padre».

È rara questa parola rivolta a Dio, in un uomo dell’Antica Alleanza.

Eppure è una parola che nasce dall’esperienza che Israele ha fatto di Dio, nella sua storia. Come un padre si è preso cura di loro.

E aggiunge: «da sempre ti chiami nostro redentore».

Questa era una parola ‘tecnica’ con un significato molto preciso nella lingua di Gesù: «redentore» significava ‘uno che pagava un riscatto’, il parente più vicino che aveva ‘il dovere di difendere i suoi’.

E allora in questa bellissima preghiera, Isaia, e il suo popolo con lui, dice a Dio: «Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie?».  “Se tu sei un padre, se sei il nostro difensore – così dicono! – perché ci lasci così lontano da te, «perché … lasci indurire il nostro cuore…?».

Perché lasci che noi siamo annoiati, affaticati, delusi, scettici, nei tuoi confronti?”.

A questo punto nasce una bellissima invocazione.  A questo punto il profeta pronuncia parole che nascono sul terreno arido e desertico di questo popolo: «Ritorna per amore … della … tua eredità». «Ritorna…!».

Ecco il grido che nasce quando siamo lontani, dispersi, provocati dalla vita. È l’invocazione rivolta ad un altro. Questo popolo, e Isaia in modo bellissimo, non dice: “Facciamoci forza! Carichiamoci, rinforziamo la nostra autostima …!”.

No, grida ad un Altro.

E qui arriva un grido sorprendente e meraviglioso: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!».  Isaia immagina che, dall’alto – noi ci immaginiamo sempre così Dio, come uno che sta ‘in alto’, in cielo, sopra di noi! – Dio faccia uno strappo, che faccia qualcosa che non aveva mai fatto prima.

Eppure questa attesa/supplica di qualcosa di nuovo nasce dalla memoria di quello che il Signore aveva già fatto: «Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo».   “Ecco tu hai fatto per noi cose incredibili, stupefacenti: «orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui». Nel passato, lo ricordiamo, tu hai fatto cose meravigliose per noi”.  Ecco, questo è il Natale: è il ricordo di una cosa meravigliosa, la più sorprendente di Dio per noi: ha squarciato i cieli ed è sceso, in mezzo a noi!

Noi non siamo degni di questo. Isaia, con tutto il popolo, dice, immaginandosi che il Signore sia arrabbiato: «tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli». Ma … in nome di Dio, al di là della propria indegnità, questa meravigliosa preghiera si conclude così: «Ma, Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci plasma, tutti noi siamo opera delle tue mani».

È un’immagine proprio bella, che richiama Genesi 2, dove Dio è immaginato come uno scultore che plasma Adam come argilla. È un’immagine che dice fiducia, abbandono, gratitudine.

“Fa’ che non dimentichiamo che tu ci hai plasmato.

Fa’ che non dimentichiamo che non ci siamo fatti a soli.

Noi siamo ‘opera delle tue mani’.

Per questo osiamo sperare che tu ritorni”.

Questo è vegliare, attendere: è sperare nella grazia dell’Altro!

don Maurizio