Mostrare il dolore è tollerabile se il fine ultimo è la salvezza di un bambino

Buongiorno Ai.Bi.,

nelle scorse settimane ho seguito, su diversi organi di stampa, la polemica che si è scatenata dopo che un’importante organizzazione non governativa ha diffuso uno spot in cui venivano mostrati bambini africani fortemente denutriti e sofferenti. Da una parte, l’ong autrice del messaggio afferma che mostrando il dolore si ottiene una maggiore sensibilizzazione degli spettatori che così si sentono maggiormente indotti a donare per aiutare questi bambini che vivono in condizioni drammatiche. Dall’altra, alcune organizzazioni non profit si oppongono a questa scelta, sostenendo che in nessun caso debba essere messa in mostra la sofferenza dei più piccoli. Sinceramente, concordo con i primi: se il fine ultimo è quello di salvare i bambini, credo che non ci si debba fermare davanti a niente.  La vita di un bambino è superiore a qualsiasi cosa e ritengo che, se egli potesse scegliere, non rifiuterebbe di essere inquadrato da una telecamera se ciò potrebbe dargli una speranza di sopravvivenza.

Grazie per l’attenzione

Mario

 

MACCHINA-DA-SCRIVERE11Buongiorno Mario,

dalla sua lettera si evince che il suo ragionamento è evidentemente animato da buona fede e dal sincero desiderio di salvare la vita a tutti quei bambini che, nel mondo, vivono in condizioni drammatiche. Tuttavia, la posizione di Ai.Bi. in merito alla vicenda a cui lei fa riferimento è diversa, fermo restando il comune obiettivo finale, quello di difendere l’infanzia più fragile.

Forse è vero che mostrare il dolore di un bambino sofferente tocca maggiormente le coscienze delle persone, muovendo la loro compassione, magari suscitando il loro senso di colpa, inducendoli così a effettuare quelle donazioni che poi le organizzazioni non profit impiegano per portare avanti i loro interventi a sostegno dell’infanzia. Ma non si può dimenticare che esporre la sofferenza dei bambini agli sguardi del mondo è una violazione della loro dignità. Non si può considerare lecito “sbattere il mostro in prima pagina” quando “il mostro” si identifica con la vittima. Soprattutto quando questa è un bambino.

A questo proposito, in Italia, vige la Carta di Treviso: il codice deontologico in materia di informazione giornalistica a tutela dei minori. Ma le regole dettate da questo codice non valgono solo per i bambini italiani o solo per quelli bianchi. Alla luce di questo, la scelta di mostrare immagini strazianti di bambini fortemente deperiti non può trovare alcuna giustificazione.

Non sempre, quindi, il fine giustifica i mezzi. Ai.Bi. non ha esitato a sostenere la posizione di chi ha definito lo spot in questione una manifestazione di “pornografia del dolore”, perché entra nell’intimità del bambino protagonista del messaggio, mette in mostra la sua denutrizione e la sua sofferenza, al solo scopo di ottenere una donazione di pochi euro al mese. Minando, in tal modo, anche la credibilità dello stesso Terzo Settore.

La strada da intraprendere, secondo noi, è quella indicata recentemente dal direttore esecutivo di AOI (l’Associazione delle Organizzazioni Italiane di cooperazione e solidarietà internazionale). Il quale ha auspicato la costruzione, al più presto, di un tavolo di lavoro volto a individuare un codice di condotta comune in materia di etica della comunicazione, che in Italia ancora non esiste, a differenza di altri Paesi. E gli effetti di questa lacuna si presentano, per esempio, nella frequente ostinazione, da parte di alcuni soggetti, a puntare su luoghi comuni e stereotipi legati alla povertà, alla malnutrizione e alle condizioni dell’infanzia nei Paesi più poveri. Serve dunque che al più presto le organizzazioni non profit, i professionisti della comunicazione e dell’informazione, i consulenti e i ricercatori si siedano attorno a un tavolo per trovare una soluzione a questo problema.

Un caro saluto,

 

Ufficio Stampa di Ai.Bi.