Libri. “Per sempre o per molto, molto tempo”: le parole per raccontare le storie di dolore e di adozione

Ci sono storie di vita che, più di altre, hanno bisogno di parole. Parole per raccontare, parole per spiegare. Parole per leggere il dolore dentro di sé. E poi ricominciare. Non sempre, però, chi vive il dolore riesce anche a leggerlo e a raccontarlo. Prima lo deve attraversare, quel dolore, per farlo proprio e tirarlo fuori. Deve guardarlo in faccia, per imparare a riconoscerlo e ad accettarlo. È il dolore di chi viene da qualcuno lasciato. E poi, finalmente, da qualcun altro accolto. È un dolore che fa male, sì, ma non solo: è un dolore che spesso si trasforma. In vergogna e in senso di colpa. Una colpa che, per davvero, colpa non è.

Ci sono storie di dolore, quindi, in cui mancano le parole. Parole per dire che qualcosa, in fondo, manca sempre, ma che qualcos’altro, a un certo punto e per fortuna, arriva; magari in altre forme e in altri luoghi, ma arriva. Sono parole che si aggrovigliano nell’anima confuse e fanno fatica a trovare l’ordine giusto. Parole che restano impigliate lì, nei “filtri dei polmoni”; si fanno sempre più pesanti e vanno sempre più giù, rifiutandosi di risalire e venir fuori, ogni volta che vedono avvicinarsi la “minacciosa Creatura del Cambiamento”.

Questo è ciò che accade a Flora, la protagonista del bel romanzo per ragazzi Per sempre o per molto, molto tempo di Caela Carter, appena edito da Mondadori. Troppi sono i buchi nel cuore di Flora, troppe le persone che hanno lasciato lei e suo fratello Julian nei primi anni della loro vita: troppi perché ella possa essere in grado di riempire quei buchi di senso e di parole. E troppe sono anche le immagini che, sfuocate, le affollano la mente, perché ella possa essere in grado di tradurle tutte in parole. Anzi, pur pronte a venir fuori per raccontare, quelle parole non fanno che trasformarsi in macigni. Piombano nello stomaco e lì si annidano, come il cibo che Julian accumula di nascosto nei recessi del suo armadio e tra le pieghe dei vestiti: troppo grande è il timore di restarne senza all’improvviso. Come quando era piccolo e da mangiare gli davano solo quel poco che riusciva a contenere la sua piccola mano.

Trovare le parole anche quando è difficile: questo significa avere fiducia ed è questo che Flora fatica a fare. Almeno finché non riesce a sciogliere tutti i nodi della sua storia, ripercorrendola a ritroso, attraversando il buio per vedere, in fondo, la luce della verità e, finalmente, convincersi che l’amore della sua mamma è “Persempre”. Per superare tutte le paure e scoprire che le parole, a volte, possono rimanere imbrigliate, nei polmoni o negli armadi, sospese a fior di labbra; ma, prima o poi, sbocciano e tornano, se impari a essere te stesso. Se sei pronto ad accogliere come sei stato accolto, a condividere quelle parole con chi ti ama e ti accetta per quello che sei.

Storie di parole nuove hanno cercato e creato insieme anche gli alunni della III A della Scuola Secondaria di I Grado, annessa al Convitto Nazionale “D. Cirillo” di Bari. Guidati dalla loro insegnante di Lettere, la prof.ssa Claudia Carrassi, hanno partecipato alla terza edizione del concorso “L’Adozione tra i banchi di scuola (a.a. 2016-2017) attraverso la realizzazione di una raccolta di cartoline poetiche composte mediante la tecnica del Cut-up con flusso di coscienza e seguendo il processo creativo alla base del Metodo del Caviardage. La prima, utilizzata nel dadaismo, consiste nel tagliare fisicamente tutte le parole di un testo riprodotto su un foglio, lasciandole intatte e mescolandole tra loro, per dar corpo a un nuovo testo. Il Caviardage, invece, prende il nome dal francese caviarder, vale a dire “censurare” (il caviar è, infatti, il caviale che un tempo veniva utilizzato per annerire i testi destinati alla censura), ed è ora un metodo di scrittura creativa poetica (e artistica), che appartiene alla Found poetry ed è stato diffuso in Italia da Tina Festa.

Esso mira a cercare la poesia nascosta in pagine strappate a caso da libri e riviste da macero, da quotidiani o fotocopie, attraverso la scelta di alcune parole che inspiegabilmente catturano l’attenzione subito e più di altre durante una rapida scorsa al testo, e che quindi determinano, in una seconda fase, la cancellazione di tutte quelle parole che invece non colpiscono e che perciò risultano inutili, annerendole o colorandole con tecniche stilistiche diverse. Insomma, si tratta di un modo per sensibilizzare i ragazzi circa il valore della parola, su cui si concentra il più alto potenziale di significato, e per ridare vita a ciò che sembrava averla perduta, mettendo in luce la bellezza che ne viene fuori ed esaltandola mediante colori, disegni e decorazioni di vario genere (scarabocchi zen, acquerelli, collage etc.). Un modo per cercare la poesia, anche laddove, apparentemente, la poesia non c’è.

“Una casa, una famiglia, è cominciata la mia seconda vita. La pronuncia, la scuola: avevo paura”. “Adolescenti, armati di serenità per amore”. Sono questi due dei testi, poetici e commoventi, venuti fuori dalla lettura delle pagine del romanzo Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari di Fabio Geda (Milano 2010), e in particolare del suo ultimo capitolo, incentrato sul racconto dell’arrivo in Italia del giovane protagonista, un migrante afgano, e della sua esperienza di adattamento ed integrazione nella nuova famiglia affidataria. Ogni pagina che compone la raccolta poetica, e grazie alla quale il gruppo classe si è aggiudicato il terzo posto del concorso, rappresenta il risultato sia di un lungo ed approfondito lavoro corale, svolto in classe anche attraverso la visione di film, la lettura di vari brani antologici e lo scambio di esperienze dirette e indirette sul tema dell’adozione, sia della riflessione, più intima e personale, di ciascun alunno sull’argomento prescelto. Un lavoro che colpisce, oltre che per la sua originalità, anche e soprattutto per la sensibilità e la lucidità con cui è stato condotto. Un lavoro che ha posto gli alunni in contatto con se stessi e con gli altri, portando alla luce talenti nascosti, risorse e potenzialità ancora sconosciute, e promuovendo un percorso di benessere interiore e di resilienza, attraverso lo stupore e la forza delle parole.

Non solo tra le mura domestiche, ma anche tra quelle delle aule scolastiche si avverte, ora più che mai, la necessità di trovare le parole. Nuove parole, per raccontare vecchie e nuove storie. L’Associazione ItaliaAdozioni ha dato perciò il via, anche quest’anno, alla quarta edizione del Concorso Nazionale “L’adozione fra i banchi di scuola”. L’iniziativa è rivolta alle classi della scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo e di secondo grado, statali e paritarie, di tutto il territorio nazionale, e prevede la realizzazione di elaborati scritti, disegni o dipinti, cortometraggi o spot in stile Pubblicità Progresso, volti a diffondere, attraverso lo sguardo dei più piccoli come pure degli adolescenti, una sempre più ampia e corretta cultura dell’adozione.

Ribaltare le prospettive è, infatti, l’unico modo per imparare a liberarsi sempre più dagli stereotipi e dai luoghi comuni costruiti intorno al tema dell’adozione, che peraltro ben s’inserisce nella programmazione didattica di tutte le scuole, di diverso ordine e grado. Dare nuova forma, nuovi colori e nuova voce al dolore e condividere così una storia che diventa plurale: è questa la chiave giusta per accogliere le ferite dell’altro e arrivare a comprenderne il senso e le parole. Anche quelle che spesso restano sospese a fior di labbra e aspettano di solo sbocciare e venire fuori.

Fonte: www.huffingtonpost.it