Crisi adozioni internazionali: non servono più famiglie!

Buongiorno,

mi chiamo Luigi e ho letto la notizia pubblicata sul vostro portale che racconta la commovente storia di Albert.

Secondo me non servono più famiglie, ma famiglie più preparate.

Non basta che una coppia dica vogliamo adottare: ci vuole preparazione prima dell’arrivo dei bambini e soprattutto dopo l’arrivo. Tante coppie, molte, dopo l’ingresso in famiglia del figlio spariscono, non frequentano più associazioni di famiglie adottive, si isolano per non dare troppo peso al fatto di essere genitori adottivi con bambini adottati.

Questo perché si è già “sofferto” troppo per le “investigazioni” dei servizi sociali e degli operatori degli enti, per dimenticarsi la fatica degli anni di attesa.

Quante persone ho sentito personalmente dire, dopo due soli mesi dall’inserimento in famiglia dei bambini, “la nostra adozione si è conclusa bene, se volete veniamo a fare la testimonianza per i futuri genitori. Queste famiglie NON si fanno aiutare! e non aiutano i loro figli.

Non penso che le vacanze pre – adottive (per chi poi sarebbero vacanze?) possano aiutare i bambini. Ma che sistema è? Andiamo nel Paese, facciamo la prova, se ci piace lo prendiamo, altrimenti abbiamo fatto una bella vacanza in un bel luogo che mai avremmo pensato di visitare e così si ritorna a casa tutti contenti!

E l’Ente fa fare altri corsi, altri documenti, altri soldi e poi via con un altro viaggio-vacanza!!

 

 

Lisa TrasforiniBuonasera Luigi,

la prima parte delle sue osservazioni rappresenta effettivamente uno spaccato di situazioni che si verificano nelle famiglie adottive, laddove la voglia di essere “normali” non fa tenere in dovuta considerazione gli aspetti legati all’adozione. Aspetti che non vanno né nascosti, né esaltati, ma sicuramente devono essere considerati e compresi nel tempo evolutivo che caratterizza la crescita di un bambino e della famiglia stessa.

Spesso le situazioni esplosive che caratterizzano alcune famiglie adottive si presentano, apparentemente, improvvisamente, e dopo anni di latenza. Chissà quanti segnali di disagio erano già presenti e che il bisogno che vada tutto bene e che l’adozione “sia riuscita” – quasi a rappresentare un risarcimento rispetto alle sofferenze e al proprio narcisismo ferito – non ha permesso di cogliere ed affrontare. Nelle relazioni affettive nulla è pietrificato ma tutto è in movimento e, pertanto, l’intercettazione e l’esplicitazione di paure, fatiche e bisogni sono espressione del fatto che l’adozione sia riuscita e che l’amore per i figli e tra figli e genitori va al di là delle loro prestazioni.

Rispetto alla seconda parte delle sue osservazioni, mi permetto di porre all’attenzione che la proposta dell’Autorità colombiana – Instituto Colombiano de Bienestar Familiar – si sviluppa con una procedura molto seria di preparazione e di assistenza di questi bambini e si profila come il desiderio di dare una possibilità ai bambini che, altrimenti, non avrebbero altro futuro. Ritengo importante specificare che è un’iniziativa studiata e proposta dal Paese di origine di questi bambini e che altri Paesi realizzano questo progetto di vacanze preadottive da molti anni, rendendo possibile molte adozioni.

Se si riflette su come avvengono le adozioni in molti Paesi, dove i bambini sono “buttati” in una stanza per incontrare due persone che vedono qualche giorno, per poi non vederli più per mesi, senza la possibilità di capire, di prepararsi o anche solo, banalmente, di sapere dove andranno a finire, senza imparare una lingua ecc ecc … sembra che quantomeno questi bambini possano essere accompagnati in modo più efficace. Non sono pochi i Paesi che prevedono più viaggi della coppia adottiva prima di terminare l’iter adottivo.

Il protocollo e l’esperienza proposta dalla Colombia appare molto seria e risponde alla domanda che spesso si pongono i ragazzi che poi diventano troppo grandi: “avrei voluto avere una possibilità”.

Nessuno ha la possibilità di prevedere il futuro, ma la Colombia pare aver scelto non l’opzione di rischiare sulla pelle del bambino ma l’opzione di rischiare una prospettiva diversa per i bambini che altrimenti una famiglia non l’avranno mai.

Grazie per il suo contributo

Lisa Trasforini

Psicologa di Ai.Bi.