Abisso etico che sconvolge anche il diritto

provette 200Pubblichiamo di seguito un’intervista al giurista Andrea Renda, pubblicata su Avvenire del 15 aprile 2014, a firma di Emanuela Vinai.

 

Lo scambio di provette e la maternità “dissociata” che ne è derivata non è solo un caso di malasanità, ma innesca una serie di interrogativi etico-giuridici su cui serve chiarezza. Facciamo il punto con Andrea Renda, associato di diritto privato all’Università Cattolica di Piacenza.

Questa mamma ha scelto di portare avanti la gravidanza, ma se avesse manifestato la volontà di abortire, sarebbe stato possibile anche se, tecnicamente, i bambini non sono “suoi”?

Il nostro sistema legislativo ammette un modello di interruzione di gravidanza che non si ispira al criterio di autodeterminazione della donna, ma al criterio del bilanciamento della salute della donna con quello del feto. L’interpretazione della legge è stata negli anni piuttosto larga, ma siccome l’aborto ammesso non è mai di tipo eugenetico, anche in questo caso la donna avrebbe potuto decidere di interrompere la gravidanza secondo quanto previsto dalla 194.

E quindi?

Se la scoperta che gli embrioni impiantati non sono i suoi le avesse generato uno stress tale da indurre un pericolo grave di vita, avrebbe potuto accedere all’aborto perché previsto dalla legge.

Di chi sono gli embrioni?

Non si può parlare di proprietà degli embrioni o dei gameti. In primo luogo perché il termine “proprietà” non solo è brutto, ma è anche improprio, perché solo le cose possono essere oggetto di proprietà. In tal senso, se si decidesse che anche l’embrione è una cosa, ne scaturirebbe il diritto di disporne in maniera piena. E si potrebbe cederlo a terzi o distruggerlo. Gli embrioni non possono essere oggetto di proprietà di nessuno.

Questo come si pone in relazione al problema dell’utero in affitto?

In Europa, salvo che in Gran Bretagna e Grecia, la situazione è omogenea riguardo la maternità surrogata: l’utero in affitto non è ammesso. Questo denota un consenso sociale condiviso sul tema che rispecchiaun valore comune: da un lato il corpo delle donne non può essere strumentalizzato a fini riproduttivi, dall’altro ripugna l’idea che la-vita nascente possa essere considerata una proprietà.

Al momento della nascita, di chi saranno figli questi bambini?

Nel sistema normativo il criterio identificativo della maternità è sempre stato il parto, principio dettato dal codice del 1942 sul logico presupposto che vi fosse una coincidenza tra maternità genetica e biologica.

Oggi però la situazione è diversa.

Sì, le biotecnologie fanno venire meno questo status e creano un problema nuovo. A mio parere la questione è diversa a seconda del momento della scoperta della dissociazione del dato biologico da quello generico. Se questo emerge in una fase precoce della gravidanza, ritengo vi siano solide ragioni per identificare come madre colei che ha fornito il materiale generico. Diverso è invece se la scoperta di questo divario dovesse avvenire quando i figli sono nati e già cresciuti con la donna che li ha partoriti: qui prevarrebbe il già instaurato rapporto di filiazione.

Quali sono le criticità di questa situazione?

Il dato genetico della genitorialità vale per la coppia che con i suoi gameti ha dato origine all’embrione. Quando invece pensiamo all’altra coppia, se si ammette che la madre è solo colei che ha partorito, discorso diverso vale per il padre, che sicuramente non è il padre dei bambini. Si arriva al paradosso per cui i neonati sono per legge figli della madre biologica ma non del di lei marito che, volendo, potrebbe disconoscere il nato.