Adozioni, la grande rinuncia

lacrime-adozioniLa crisi delle adozioni internazionali, il dibattito sulla stepchild adoption, le difficoltà per le coppie di adottare e l’immobilismo della CAI (Commissione Adozioni Internazionali). Il Mattino, a firma di Antonio Galdo, fa il punto della situazione dedicando ampio spazio all’argomento con un’inchiesta ad hoc. Riportiamo qui la versione originale del servizio pubblicato il 16 febbraio.

Sono coppie di un Dio minore. Marito e moglie, sposati da almeno tre anni, pronti ad adottare un figlio all’estero o magari in Italia, disposti ad affrontare gli alti costi di una procedura che attraversa servizi sociali, aule dei tribunali e studi di avvocati, con la solita gincana burocratica: tutto sempre più difficile e più inutile. Le adozioni internazionali in Italia, infatti, negli ultimi cinque anni si sono dimezzate, e siamo passati da 3.320 bambini nel 2011 a 1.969 nel 2014, una cifra che, verosimilmente, sarà confermata nel 2015.

Eravamo secondi al mondo, dopo gli Stati Uniti, per l’efficacia di questo meccanismo, e adesso ci ritroviamo ultimi in Europa. Così mentre l’Italia si divide sui diritti delle unioni civili, sulla stepchild adoption, sull’utero in affitto, e mentre si contano 5milioni e 400mila famiglie senza figli (circa un terzo del totale), l’adozione internazionale da grande opportunità per un Paese ispirato all’accoglienza e in crisi demografica, sta diventando un tabù, un obiettivo di fatto virtuale, irrealizzabile.

«Ci stanno distruggendo, nell’indifferenza e nell’ignoranza, forse perché non abbiamo alle spalle una lobby potente, come le varie associazioni degli omosessuali. Non riusciamo a dare altre spiegazioni a tanti elementi che ci stanno trascinando in un baratro, ovvero nell’impossibilità, anche quando ci sono tutti i requisiti, di adottare un bambino, e di compiere così un gesto di generosità e di apertura della famiglia», protesta Marco Griffini, presidente di Ai.Bi. (Associazione Amici dei Bambini), uno dei 66 enti autorizzati dalla legge ad accompagnare le coppie intenzionate a portare a casa un bambino straniero da adottare. E Antonio Dionisio, avvocato torinese specializzato nel Diritto di famiglia, aggiunge: «Forse il disinteresse della politica nasce dal fatto che comunque parliamo di un fenomeno ridotto, con alcune migliaia di famiglie in campo, che certo non portano tanti voto».

I segnali del disimpegno sono diversi. Lo sanno bene le famiglie che da tre  anni aspettano di ricevere dal Congo i bambini già adottati, ben 1.500, bloccati dalla decisione del paese africano di chiudere le porte a questa procedura. Alcuni genitori, qualche giorno fa, si sono incatenati davanti a Montecitorio, chiedendo un intervento diplomatico da parte del governo per sbloccare la situazione: il tema, infatti, si presta a un negoziato politico, che non può essere certo affrontato da una singola famiglia o da una piccola associazione. Un altro segnale negativo sulle adozioni internazionali è stato il depotenziamento della Commissione per le Adozioni Internazionali, che per tradizione era presieduta da un ministro (di solito il responsabile del Welfare o della Sanità), e che oggi  è guidata da un magistrato nel ruolo di vice-presidente: Silvia Della Monica, ex parlamentare del Pd. Ma finora la nuova Commissione si è riunita una sola volta, e i dati che ha raccolto e pubblicato sono fermi al 2013.

Intanto i paesi dai quali dovrebbero arrivare i bambini stranieri da adottare diminuiscono. Il Congo, come abbiamo detto, ha chiuso le porte dopo che una coppia americana aveva prima adottato un bambino africano e poi, non contenta per la scelta, lo aveva ceduto a un’altra famiglia. Adozioni sbarrate anche dal Kenya, dalla Cambogia e dal Nepal, mentre l’Etiopia procede con una politica di stop and go. Allo stesso tempo, negli ultimi quattro anni nessun nuovo paese straniero è entrato nel gruppo di quelli dove è possibile avanzare una richiesta.